Dopo oltre cinque decenni di attività, Steven Spielberg è tornato alle origini con The Fabelmans, la versione leggermente romanzata di quella che è effettivamente la sua origin story: la passione per il cinema in tenera età, il divorzio dei genitori, e varie altre esperienze che hanno contribuito alla creazione degli elementi ricorrenti della sua poetica. Fino ad arrivare a una conclusione che riassume perfettamente un secolo di cinema americano e l’impatto che esso ha avuto su Spielberg. Di questo vogliamo parlare nella nostra spiegazione del finale di The Fabelmans. Ovviamente l’articolo contiene spoiler.
Al cospetto del maestro
Una parte del finale la svela sottilmente la locandina ufficiale di The Fabelmans, che mostra, modificata, l’immagine di commiato della pellicola, con il giovane Sammy Fabelman che cammina tra i vari teatri di posa della CBS, dove è appena stato assunto per fare da assistente su un set televisivo. Ma prima di arrivare a quel momento c’è un incontro decisivo per l’aspirante cineasta: consapevole della sua passione per la settima arte, il produttore Bernie Fein gli offre la possibilità di parlare a tu per tu con “il più grande regista di tutti i tempi”, che proprio in quel momento si trova nell’edificio. Quel regista è John Ford, ormai sul viale del tramonto (siamo nel 1965, e gli resta solo un film che riuscirà a completare, a parte un documentario che uscirà postumo, nel 1976), ma ancora dotato di acume e (auto)ironia, al punto da chiedere “Perché?” quando viene a sapere che Sammy vuole lavorare nel cinema, come se fosse il mestiere più umiliante del pianeta.
Nuovi orizzonti
L’incontro con Ford è veramente avvenuto, così come la conversazione su dove posizionare l’orizzonte all’interno dell’inquadratura. Spiega Ford, con termini un po’ più volgari rispetto alla vera discussione che Spielberg ha riportato in varie interviste: “Quando l’orizzonte è in alto, è interessante. Quando è in basso, è interessante. Quando sta nel mezzo, è una palla mortale! Capito?”. Alla risposta affermativa di Sammy, il grande regista se ne esce poi con “Buona fortuna. E adesso esci dal mio cazzo di ufficio!” (in inglese “Now get the fuck out of my office”, esilarante applicazione della regola secondo la quale, in un film che vuole il visto PG-13 per il mercato americano, la celebre parolaccia può essere usata una volta sola). Il giovane Fabelman esce quindi in mezzo ai teatri di posa, e mentre va incontro al proprio destino la macchina da presa si sposta per rispettare la consegna sull’orizzonte, segnalando che il consiglio sarà parte integrante della filmografia di Spielberg (basti pensare a come finisce Indiana Jones e l’ultima crociata).
L’interprete giusto
C’è un che di poetico nella scelta di chiudere il film con quell’incontro: Spielberg ha infatti preso la decisione di realizzare il film durante la pandemia, dopo anni di tentennamenti, perché la crisi in cui si è ritrovata l’intera industria cinematografica lo ha spinto a riflettere sul proprio rapporto con la sala e con il mezzo filmico. Giusto, quindi, che a dare la spinta finale al suo alter ego sullo schermo sia Ford, simbolo di un modo di pensare i film che non andrebbe giù all’industria di oggi, fissata con il guadagno anche a discapito della qualità dell’esperienza dello spettatore (Ford era notoriamente ostile nei confronti di qualunque intervento aziendale sui suoi set, e la sua personalità scorbutica era un’arma precisa per poter lavorare in pace).
Ed è altrettanto giusto che, tramite un’intuizione suggerita dal giornalista Mark Harris (marito del co-sceneggiatore Tony Kushner), quella personalità vulcanica emerga dal volto mite di David Lynch, coetaneo di Spielberg e, seppure in modo diverso, portavoce di una poetica all’insegna della meraviglia e dell’interazione fra reale e irreale, ispirata dal cinema classico hollywoodiano (Lynch è dichiaratamente e palesemente fan de Il mago di Oz di Victor Fleming). Due personalità non tanto distanti, riunite in modo fittizio tramite la rielaborazione di uno dei ricordi più divertenti di Spielberg.
Tre generazioni sullo schermo
Quel finale è anche il modo per riflettere sull’evoluzione dell’audiovisivo, coniugando passato, presente e futuro in pochi minuti di film: c’è Ford, la vecchia Hollywood incarnata, uno per il quale il piccolo schermo (firmò qualche episodio per diverse serie tra il 1955 e il 1962) rappresentava la fine della carriera e non l’inizio; ci sono Spielberg e Lynch, due autori che hanno saputo ridefinire le potenzialità della televisione apportando un gusto più cinematografico (non a caso Duel è uscito in sala in Europa, per non parlare delle proiezioni speciali di episodi di Twin Peaks); e nella scelta di affidare il ruolo di Bernie Fein all’attore Greg Grunberg c’è l’allusione a J.J. Abrams, colui che ha portato nel nuovo millennio il rapporto simbiotico tra i due schermi che deve molto al lavoro di Spielberg (il quale ha collaborato con Abrams per Super 8, altro omaggio all’amore per il cinema che scatta in tenera età).
Ma al netto delle libertà che televisione e streaming possono offrire oggi, il fascino del grande schermo rimane immutato. E per questo, alla fine, Sammy esce dall’edificio della CBS, rinvigorito dalla schiettezza di Ford, e si avvia verso nuovi orizzonti, con la macchina da presa che va verso l’alto, oltre i limiti imposti dalla mentalità catodica. Pronto a realizzare quei sogni che non dimenticheremo mai, come dice sua madre descrivendo i film. Sogni grandissimi, a volte prossimi all’incubo (se pensiamo al periodo più cupo negli anni successivi all’11 settembre), sempre lì, nella sala. E rigorosamente senza scivolare nel territorio della “palla mortale”.