Dopo aver conquistato il pubblico festivaliero, da Toronto a Zurigo passando per la Viennale e la Festa del Cinema di Roma (e il Fantastic Fest, appuntamento di genere ad Austin, nel Texas, dove ha vinto il premio assegnato dagli spettatori), The Menu è nelle sale con la sua miscela di humour e horror: una satira macabra in ambito foodie, dove la promessa di una cena indimenticabile ha conseguenze inattese. Un piatto molto ricco, fino alla portata conclusiva che chiude il cerchio in modo spiazzante e strepitoso. Proviamo a spiegare perché in questa nostra spiegazione del finale di The Menu. N.B. L’articolo contiene spoiler!
L’ultima cena
Come vi abbiamo spiegato nella nostra recensione di The Menu inizialmente si prospetta solo il classico evento da altolocati, con alte dosi di spocchia da parte dello chef e degli ospiti: è una serata esclusiva, su invito, sull’isola dove vivono il cuoco Julian Slowik e il suo staff, e il menù sarà qualcosa di unico e irripetibile, come da tradizione per l’uomo che da tempo fa sì che ogni visita al suo ristorante sia un’esperienza le cui specificità variano da cliente a cliente. Una componente che, con fare deliziosamente beffardo, si riflette sullo schermo con il menù che detta la struttura del film: ogni piatto è praticamente un capitolo, con la didascalia che introduce la scena in questione e, di conseguenza, l’evoluzione tonale del lungometraggio. E poi, a un certo punto, la virata horror: nessuno lascerà vivo il ristorante, perché il dessert sarà formato da tutti i presenti – inclusi Slowik e i suoi dipendenti – bruciati vivi all’interno dell’edificio. E, cosa ancora peggiore, Tyler, il foodie che si è portato dietro una escort spacciandola per la compagna, sapeva tutto e ha accettato comunque di far parte del piano dello chef, condannando quindi a morte un’innocente.
La frustrazione dell’artista
Alla radice della follia omicida e suicida di Slowik c’è un profondo risentimento nei confronti dei membri più privilegiati della società che si sono serviti di lui in un modo o nell’altro, spogliando la sua attività di ogni genuina spinta artistica e lasciandolo vuoto, disilluso e non più motivato dalla passione che aveva a inizio carriera. Non a caso, tutti gli ospiti sono legati a lui in qualche maniera, dalla giornalista che lo rivelò al mondo all’investitore che per primo credette in Slowik a livello finanziario, e che è quindi il primo a morire, annegato nelle acque che circondando l’isola. E pur di ritrovare la dignità persa, il grande cuoco è disposto a radere al suolo tutto, ponendo fine alla carriera con una vampata di fuoco. La versione estrema di quello che talvolta è accaduto a Hollywood, dove il contrasto fra arte e commercio ha generato risultati deleteri per entrambe le parti come nel caso della United Artists, andata in bancarotta a causa della strepitosa megalomania di Michael Cimino con I cancelli del cielo.
Autore vs. fan
In tal senso, il film intero è anche un liberatorio urlo di vendetta nei confronti di tutti coloro che pensano di saperne una di più di chi l’idea l’ha avuta e perfezionata con fatica e passione. E il livello di lettura metacinematografico raggiunge forse l’apice quando Slowik decide di farla pagare a Tyler, il sedicente esperto di cucina che fotografa i piatti anche quando il regolamento del ristorante lo vieta espressamente. Invitato a preparare qualcosa di suo, il giovane accetta la sfida, perdendo malamente: su incoraggiamento di Slowik si impicca, sopraffatto dall’umiliazione, e la didascalia che dovrebbe descrivere il piatto di turno recita semplicemente “Tyler’s bullshit”, la stronzata di Tyler. Il fan, che vantava grande expertise e conoscenza del mondo di cui si è fatto esegeta presso le nuove generazioni, è sconfitto platealmente dall’artista, stufo di starsene in disparte mentre il mondo circostante deforma la sua arte tramite l’uso spropositato dei mezzi di comunicazione di massa. Una sconfitta elegante e semplice, tramite la nozione del “Se pensi di saperne più di me, mettiti all’opera”. Una risposta che più di un regista vorrebbe dare alle peggiori “critiche” (spesso un confuso connubio di insulti, minacce e supercazzole) dei cinefili dell’internet.
Il piacere della semplicità
Alla fine, l’unica a salvarsi è Erin alias Margot, la escort camuffata da compagna di Tyler, perché l’unica in grado di empatizzare con il tormento interiore di Slowik e saperlo convincere a ritrovare, anche se solo per pochi istanti, la gioia di inizio carriera. Avendo scoperto cosa facesse prima di diventare lo chef stellato di oggi, la ragazza sottolinea la natura ridicola del menù (alcuni piatti, puramente concettuali, sono un tantino pretenziosi) e chiede un cheeseburger con patatine. Lui, commosso, lo prepara e, avendo udito l’approvazione della cliente, le permette di lasciare l’isola prima di appiccare l’incendio. Perché sotto la scorza della cucina raffinata a cinque stelle c’è ancora quel desiderio di placare semplicemente l’appetito dell’ospite con qualcosa di gustoso. Una filosofia che si può applicare alla stessa casa di produzione del film, quella Searchlight Pictures che sotto il velo di prestigio e premi conquistati ovunque rimane una divisione di una major (prima la 20th Century Fox, oggi la Disney) e quindi si pone comunque l’obiettivo di intrattenere con un minimo di sensibilità mainstream. In questo caso, la commedia horror, genere molto appetibile a livello commerciale, come espediente per mettere alla berlina, in senso allegorico cinematografico, la nozione del brivido “elevato”. Alla fine, sempre brivido è, e non c’è nessun motivo per dargli uno strato di rispettabilità aggiuntiva in un mondo dove registri “alti” e “bassi” sono liberi di coesistere.