La serie: La Legge di Lidia Poët, del 2023. Creata da: Matteo Rovere, Letizia Lamartire. Cast: Matilda De Angelis, Pier Luigi Pasino, Eduardo Scarpetta Genere: Legal drama, storico. Durata: 50 minuti/6 episodi. Dove l’abbiamo visto: su Netflix.
Trama: Torino, 1883. Lidia Poët si è appena abilitata e si accinge a diventare la prima donna avvocato in Italia, ma la Corte d’Appello glielo impedisce. In attesa del ricorso, Lidia ricorre al fratello Enrico per intraprendere comunque la carriera forense.
“Alla Corte risulta evidente che l’avvocatura è un ufficio nel quale le femmine non devono immischiarsi: sarebbe disdicevole e brutto vedere le donne accalorarsi in discussioni oltre ai limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare.
Non occorre nemmeno di accennare al rischio cui andrebbe incontro la serietà dei giudizi, se si vedesse la toga dell’avvocato sovrapposta ad abbigliamenti strani e bizzarri, che non di rado la moda impone alle donne”.
Siamo a fine Ottocento, e a esprimersi in questi termini è la Corte d’Appello di Torino, che decide di proibire a Lidia Poët l’esercizio della professione di avvocato, malgrado abbia regolarmente sostenuto laurea, praticantato ed esame di stato.
Sul tema nulla dice la costituzione del tempo, ossia lo Statuto Albertino, e a decidere sarà prima la giurisprudenza di merito, poi quella di legittimità. Una giurisprudenza tutta maschile, che farà di tutto per ostacolare la sua carriera.
È l’inizio di una lunga battaglia, che vedrà Lidia Poët trionfare soltanto a 65 anni: fino ad allora, per esercitare la propria professione dovrà avvalersi della firma del fratello Enrico.
A recuperare questa pagina semisconosciuta della storia italiana e a farne una serie Netflix è Matteo Rovere, già autore dell’eccellente Romulus.
Il tema era spinoso e le incognite non mancavano, come scopriremo nella recensione di La Legge di Lidia Poet.
Una trama a tinte procedural
L’avvocato Lidia Poet, dopo aver finalmente conquistato l’abilitazione, è pronta per assumere il suo primo caso: il giovane Pietro Baiocchi è stato accusato dell’omicidio della ballerina Adele Valery, prossima alle nozze con il marchese di Clermont.
La sentenza della Corte d’Appello, tuttavia, annulla l’iscrizione all’albo della protagonista, e manda in fumo anni di sacrifici. In attesa di proporre ricorso, Lidia mette da parte l’orgoglio e si rivolge al presuntuoso fratello Enrico in cerca d’aiuto.
Nell’immediato ha bisogno di una casa in cui vivere e di un legale che assista il suo cliente. O meglio, di un legale che le consenta di continuare ad assistere il suo cliente.
Sua moglie, bigotta e perbenista, non è affatto d’accordo, ma Enrico accetta malvolentieri, e la situazione gli sfugge ben presto di mano.
Lidia è intelligente, ambiziosa e testarda, e continua a battersi per la giustizia: conosce strumenti all’avanguardia – come le impronte digitali e il test con il poligrafo (all’epoca “guanto volumetrico”) – di cui però la magistratura non sa nulla, e per farsi strada dovrà ricorrere unicamente alla propria intuizione.
Alla fine vincerà il caso, e una sequela di clienti sempre più disperati si presenterà alla sua porta.
C’è un’operaia anarchica accusata di aver ucciso la moglie del datore di lavoro, il fratello di colui che sarebbe dovuto essere il suo promesso sposo che è convinto di aver ucciso suo padre, e così via.
Insieme alle indagini, però, arrivano anche i problemi: Enrico finirà ben presto nel mirino per aver concesso a Lidia di esercitare la professione avvalendosi della sua firma, e per la protagonista non mancheranno le sfide anche in ambito privato.
L’unico a credere davvero nel suo talento sembra essere il cognato Jacopo, un giornalista della Gazzetta Piemontese un po’ impiccione, ma sedotto dal suo talento…
La sceneggiatura punta tutto sull’intrattenimento
Per sviluppare un telefilm su un personaggio come Lidia Poet si potevano percorrere due strade: quella del dramma storico con una forte componente di denuncia sociale, oppure l’intrattenimento più vivace e scanzonato.
La sceneggiatura della serie punta tutto sulla seconda opzione, e a conti fatti si tratta di una scelta vincente.
Con un taglio creativo che non ha paura di strizzare l’occhio a Enola Holmes e al popolare filone del legal drama, gli autori fanno di Lidia Poët una sorta di odierna detective, geniale e intuitiva, pronta a tutto pur di vincere le proprie cause e smascherare il vero colpevole.
Ciò, tuttavia, non significa lasciare in secondo piano il rigore dell’ambientazione storica o il tema delle rivendicazioni femministe, dal momento che i fattori in questione rappresentano anzi le due colonne portanti della serie.
I sei episodi della prima stagione, però, scorrono via con un taglio leggero, agile e accattivante, e conquistano l’attenzione di ogni tipo di spettatore, senza cadere nella trappola dell’austerità.
Con una scelta coraggiosamente al di fuori dei canoni della televisione italiana, la serie racconta l’Ottocento con il linguaggio del procedural, proponendoci un “caso del giorno” per ogni puntata.
La scelta piace e funziona anche e soprattutto perché il numero delle puntate è estremamente ridotto, dal momento che il rischio della ripetitività è dietro l’angolo.
La produzione è ben consapevole di aver individuato una formula vincente, ma finisce per ripeterla fin troppo pedestremente a ogni episodio: c’è l’introduzione dal caso, l’intervento di Lidia, il difficile processo di coinvolgimento di Enrico, la proposta di una soluzione innovativa che viene puntualmente rigettata dal tribunale, l’indagine della protagonista e l’identificazione dell’assassino.
I casi risultano così, tutto sommato, un po’ troppo lineari e poco articolati. Tuttavia l’ironia e la vivacità la fanno da padrona, e la serie funziona brillantemente.
Una Matilda De Angelis superlativa
A sancire il successo della serie, tuttavia, è la prova eccellente di Matilda De Angelis, che traccia un ritratto di Lidia Poët incredibilmente profondo, autentico e ben connotato.
Se la scrittura dei vari episodi non di rado corre su binari fin troppo rodati e poco originali, la costruzione della nostra eroina risulta invece ben più originale e approfondita, e la star di The Undoing gioca un ruolo chiave nel farla emergere in maniera davvero tridimensionale.
In lei c’è l’investigatrice geniale, sempre tre passi avanti a qualsiasi collega, e persino alla stessa magistratura.
C’è la donna determinata e coraggiosa, che subisce ogni tipo di angheria e vessazione da parte di un mondo ostinatamente retrogrado e maschilista, incapace di accogliere il cambiamento già in atto in altri paese.
C’è una giovane indipendente e testarda, che ha rifiutato il matrimonio e affrontato l’ostilità di suo padre e dell’intera famiglia per coronare il proprio sogno professionale.
E c’è pure una ragazza estroversa, sfrontata, ribelle e un po’ weird, a cui scappa sempre qualche parolaccia di troppo, e che proprio non sa rispettare il bon ton del mondo sabaudo.
Matilda De Angelis riesce a far coesistere tutti questi volti nel migliore dei modi, e dà vita a una protagonista davvero unica e memorabile, che conferisce alla serie un’identità forte e molto marcata rispetto agli altri titoli del filone.
L’unico aspetto ancora inesplorato è rappresentato dalla fede religiosa della giovane e spavalda consulente legale torinese, che fu un’orgogliosa rappresentata della chiesa valdese in un’epoca in cui questo credo aveva ottenuto la libertà di culto da appena 50 anni, ed era ancora ai margini della società.
Che possa rappresentare un asso nella manica di Rovere e Lamartire in vista della prossima stagione?
Il fascino della storia
Che si tratti del Lazio primitivo di Romulus, o della Torino sabauda di fine Ottocento, Matteo Rovere e il suo staff sono ormai una certezza in fatto di rigore e precisione storica.
Pur con il taglio vivace e leggero di un’Enola Holmes nostrana, La Legge di Lidia Poët ci propone un’efficace e suggestivo ritratto dell’epoca in cui è ambientata, dalle piazze agli interni delle abitazioni, e dalle divise ai manifesti.
Torino viene ricostruita con una cura minuziosa dei particolari: la Mole è ancora in costruzione, impazzano le rivendicazioni degli anarchici, il giornale è la Gazzetta Piemontese e la Cassazione si trova ancora in città, dal momento che al tempo esistevano più corti di “Ermellini” in tutta Italia.
Dalle divise dei Carabinieri alle prigioni, e dalle decorazioni in broccato alle novità processuali del tempo, come le impronte digitali e il primo test del poligrafo, tutto è al posto giusto, e nel momento giusto.
Alla base c’è un evidente lavoro di documentazione culturale e ricostruzione storica che va ben al di là della mera scelta di uno sfondo suggestivo: senza indugiare sulla facili suggestioni della “città esoterica”, la Torino di Lidia Poët risulta uno dei protagonisti meglio riusciti della serie, e sembra davvero vivere di vita propria.
L’operazione merita un plauso particolare per la sua capacità di rendere misteriosa, pop e affascinante una città e un’epoca dall’enorme potenziale cinematografico, anche se quasi completamente vergine.
L’auspicio è che non soltanto la serie riesca a conquistare la meritata seconda stagione, ma che inauguri un filone seriale capace di esplorare anche in altre declinazioni il Piemonte dei Savoia, all’ombra del quale si celano storie, fatti e personaggi che potrebbero facilmente rivaleggiare con il successo di I Tudor, I Borgia. I Medici e Sissi.
Il giusto approccio a una battaglia ancora in corso
La Legge di Lidia Poët è una serie femminista, e non poteva essere altrimenti: il personaggio storico a cui è dedicata fu una pioniera delle rivendicazioni delle donne, e con la sua battaglia riuscì ad aprire le porte dell’avvocatura italiana a tutte le studentesse di giurisprudenza che hanno seguito le sue orme.
“Verrà un secolo – riflette nel suo diario, al termine della seconda puntata – in cui queste nostre dispute sulla dignità femminile suoneranno grottesche, come oggi suonano quelle di chi pochi secoli or sono si chiedessero se gli indiani d’America avessero o non avessero un’anima immortale“.
Lo sguardo degli autori, tuttavia, rifugge ogni facile retorica: per quanto i sei episodi strizzino di continuo l’occhio all’attualità, e facciano riflettere anche lo spettatore più distratto su quanto lavoro sia necessario ancora oggi per raggiungere la piena parità di genere nel mondo del lavoro, il personaggio di Lidia Poët non è la patinata campionessa di una causa ideologica, o un’eroina senza macchia in lotta con un mondo crudele.
Il personaggio di Matilda De Angelis, diversamente da quanto purtroppo si è visto in produzioni sulla carta ben più ambiziose (si pensi al mediocre She Said – Anche Io), è un essere umano a tutti gli effetti, con mille debolezze, vizi e virtù, talento e presunzione.
Questo, insieme a un tono vivace e mai pedante, rappresenta un approccio particolarmente ben riuscito alla materia, e riesce a far risaltare le ingiustizie e le prevaricazioni di cui la giovane è vittima, senza bisogno di inutili e controproducenti sottolineature registiche.
Non c’è spazio per la spettacolarizzazione e l’eroismo ad ogni costo: la battaglia culturale per la parità di genere, ieri come oggi, sta soprattutto nel quotidiano, e nei piccoli gesti, e La Legge di Lidia Poet ne è un ottimo esempio.
La recensione in breve
La Legge di Lidia Poët è una serie leggera, vivace e scanzonata, che adotta un accattivante taglio procedural e giallistico per far rivivere la Torino dell'Ottocento e, con essa, un'importante pagina della storia dei diritti della donna. Una Matilda De Angelis formidabile e il rigore della ricostruzione storica di Matteo Rovere incoronano una bella novità nel panorama televisivo nostrano.
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