Dopo sette anni, The Crown è arrivata al suo epilogo definitivo. La sesta stagione, infatti, chiude il racconto pubblico e privato della famiglia Windsor e degli eventi che hanno riflettuto sulla cultura e la società britannica. E lo fa con dieci episodi rilasciati in due momenti diversi che, però, hanno mostrato più di una debolezza narrativa, lasciando piuttosto deluso un pubblico che, ad essere onesti, si stava gradualmente allontanando già da tempo.
Nonostante questo, però, il finale costruito con una grande attenzione dal punto di vista della narrazione umana e con una volontà emotiva ben evidente, è riuscito nella non facile impresa di salvare le sorti della sesta stagione e, soprattutto, di dare circolarità alla lunga vicenda narrata. Così, come ad una giovane principessa Lilibet, ancora non salita al trono, è stato affidato il compito di introdurre nelle ombre e nelle poche luci del Palazzo, alla regina Elisabetta II, stanca e probabilmente provata da una serie di delusioni personali, è consegnato il compito di chiudere la narrazione. Due momenti che, anche se con volti ed in età diverse, riflettono la medesima volontà di andare oltre la rappresentazione della corona come elemento emblematico ed istituzionale. Al centro di tutto, piuttosto, c’è soprattutto la donna immortalata in due diversi momenti: il primo in cui ancora non ha perso contatto con se stessa, il secondo in cui si rende conto di avere più la visione del suo io personale a favore di quello pubblico.
In sostanza, dunque, nonostante i vari comprimari che nel corso di The Crown si sono avvicendati all’interno di questa lunga narrazione, Elisabetta II è la vera protagonista. Il perno centrale intorno al quale ricostruire il mondo che la circonda, pubblico e personale, storico e privato. E, tenendo conto di questo, l’episodio finale di The Crown 6 non poteva che essere costruito proprio come un elogio drammatico alla regina ma, soprattutto, alla donna mettendola a confronto con i suoi molti volti e, soprattutto, con le riflessioni sul ruolo rappresentato per settant’anni.
La fine di un’era
Prima di addentrarsi in qualsiasi tipo di riflessione sul personaggio di Elisabetta II, interpretato nelle sue fasi finali dall’incredibile Imelda Staunton, è opportuno tener conto di un evento imprevisto che, in qualche modo, ha condizionato e, forse, mutato i toni finali della narrazione. Durante le riprese dell’ultima stagione di The Crown, infatti, è arrivata come un fulmine a ciel sereno la notizia della morte della Regina. Un evento che, qualunque siano le convinzioni riguardo l’opportunità o meno della sopravvivenza della monarchia, è andato a scrivere una pagina importante della cultura popolare. In quell’esatto momento, infatti, si è percepito nettamente la chiusura di un capitolo, una scissione definitiva tra il prima e il dopo che, inevitabilmente, avrebbe imposto un prezzo alto da pagare ed una riflessione necessaria per chi sarebbe venuto dopo di lei. In sostanza, dunque, si può dire che, insieme alla scomparsa di Diana, la morte di una regina così longeva e rappresentativa sia stata una sorta di sisma capace di mettere in dubbio l’opportunità e l’esistenza di un sistema così fortemente legato al passato come la monarchia.
Senza Elisabetta II, infatti, i Windsor hanno perso definitivamente la capacità di riprodurre e rigenerare il sogno motivando la loro presenza come famiglia regnante. Un sentimento, questo, che traspare nettamente soprattutto nell’ultimo episodio Sleep Dearie Sleep in cui si viene catturati dai dubbi e dai timori di una regina che, per una volta dopo molto tempo, torna ad essere donna. Una svolta interessante e fortemente empatica che trova forza soprattutto nella naturale fragilità fisica della Staunton che, in queste ultime fasi, consegna il ritratto di un essere umano fortemente affaticato dal peso della corona. A quel punto, riprendendo i tormenti di un giovane Amleto, Elisabetta inizia a dibattersi all’interno di un conflitto mai provato fino a quel momento: essere o non essere più regina? E, soprattutto, la monarchia ha ancora il potenziale per rappresentare una realtà altra ma plausibile e possibile all’interno di un mondo nuovo e moderno? Considerazioni che rendono il passo della sovrana stentato ed esitante, mostrando un’insicurezza sempre celata o, nella maggior parte dei casi, negata a se stessa.
D’altronde, fuori dai cancelli di Buckingham Palace si sta muovendo una società nuova, un giovane Primo Ministro viene inneggiato come una star del cinema e la popolarità della monarchia non ha mai toccato punte così basse. Come se non bastasse, poi, di fronte ai suoi occhi si palesa sempre più chiaramente l’immagine di un principe di Galles evidentemente incapace al ruolo. Che sia di padre o di regnante. Il suo costante lamento incentrato sulla rivendicazione dei torti subiti a livelli personali, ha il fastidioso suono di un’eterna pretesa adolescenziale indossata da un uomo fin troppo maturo per essere compreso e scusato. Tutte forze, dunque, che turbinano intorno alla figura di Elisabetta e che la strattonano all’interno di una tempesta emotiva tanto violenta all’interno quanto indefinibile all’esterno.
Donna o regina
Così, mentre intorno a sé molto è destinato a mutare in modo ineluttabile, Elisabetta si isola in un silente e faticoso dialogo con se stessa. D’altronde nessun altro conosce effettivamente il prezzo pagato a livello personale per assumere il ruolo toccatole in sorte. Ed è così che la produzione ha deciso di mettere in atto un’operazione nostalgia con un valore narrativo importante. Per l’episodio finale, infatti, sono state richiamate sul set le altre regine, Claire Foy e Olivia Colman. Il loro compito, ovviamente, è stato quello di riassumere visivamente un percorso ma anche di dare corpo e sostanza ad un dialogo interiore. In entrambi i casi, di fronte ad una versione più matura del personaggio, dimostrano di avere ancora la forza e l’energia di un’età più giovane. Oltre a questo, poi, rappresentano un controcanto privo di orpelli e forme consolatorie, il cui scopo è mettere in chiaro l’inevitabilità del percorso compiuto e del dovere assunto. Un confronto a più voci, in cui la Staunton rivendica il suo diritto a rintracciare la donna dimenticata, abbandonata e messa da parte in favore del ruolo pubblico. Una realtà che le altre versioni di sé, però, ricordano, con logico realismo, di aver negato da così tanto tempo da rendere impossibile il suo ritrovamento. Ecco, dunque, che in questo dialogo a più voci, Elisabetta II torna a vestire nuovamente la corona ma, questa volta, con una diversa forma di accettazione.
Oltre il senso del dovere che l’ha mossa negli anni giovanili, infatti, in questo caso subentra anche un sentimento d’impotenza, la consapevolezza di non poter più tornare indietro. Nel suo vestire il ruolo, infatti, ha costantemente e gradualmente rinunciato al suo essere donna in nome del simbolo. Un percorso che l’ha condotta ad essere strettamente legata alla Corona nelle ultime fasi della sua vita, non tanto per convinzione, quanto per dare ancora un senso alla propria esistenza. E così, con questa consapevolezza ritrovata che ha un retrogusto amaro, Elisabetta contempla, quasi in un riflesso del futuro, il suo feretro con i simboli del potere ben esposti. Dietro le sue spalle anche le diverse versioni di se stessa che hanno rappresentato fasi importanti della trasformazione di una giovane donna in regina. A tutte loro insieme, dunque, è affidato il compito di chiudere il pesante portone di una monumentale cappella privata. Un gesto che non va solamente a porre fine ad un lungo percorso narrativo ma che ha anche un valore simbolico per tutto ciò che verrà dopo di lei.
La fine della monarchia?
Questa è una delle questioni sollevate nelle ultime battute della sesta stagione. Se non la più importante. E a portarla alla ribalta è il personaggio di Filippo, eterno principe consorte e fonte di non poche preoccupazioni per Elisabetta. Nonostante questo, però, il personaggio è stato spesso utilizzato come una sorta di contro altare narrativo, di voce fuori dal coro. L’unica in grado di confrontarsi con Lilibet e non con la regina, riportando le riflessioni su di un livello pratico e fortemente pragmatico. Un compito assunto anche in questo caso. Con il volto maturo di Jonathan Pryce, il duca di Edimburgo consegna una riflessione importante sulla monarchia e il suo futuro ad una consorte stanca e sul punto di abdicare. Ovviamente non si hanno prove evidenti che questa intenzione abbia veramente sfiorato la mente di Elisabetta e nemmeno che tali considerazioni siano state sostenute da Filippo. Nonostante tutto, però, lasciare che un personaggio così centrale per l’istituzione monarchica esprima dei dubbi evidenti sulla capacità delle generazioni dopo di loro di vestire il ruolo e sulla possibilità che la monarchia abbia ancora un futuro, non è certo un segnale da sottovalutare.
Perché se è vero che le arti visive hanno il compito di riflettere le domande e le evoluzioni del mondo moderno, in questo caso gli autori si sono assunti quello di ipotecare il percorso dei Windsor post Elisabetta. E certo non in modo positivo. Allo stesso tempo, però, utilizzando l’ironia di cui Filippo sembra fosse dotato effettivamente, offrono anche una possibilità di sdrammatizzazione. In effetti, quando queste incapacità saranno rese evidenti, non sarà più un loro problema. D’altronde dove saranno non potranno sentire certo tutto il chiasso che produrranno. Ai posteri, invece, sarò dato il compito di stabilire l’ardua sentenza.