Dopo il debutto in anteprima al festival di Venezia nel 2022, è finalmente disponibile su Netflix la nuova serie tv in sei puntate ideata e diretta dal talentuoso regista Nicolas Winding Refn, già autore di Pusher, Drive, Valhalla Rising, Solo Dio perdona, The Neon Demon e del telefilm Too Old to Die Young.
Come già vi abbiamo anticipato nella nostra recensione, Copenhagen Cowboy è un autentico capolavoro, che sancisce un nuovo apice nel percorso artistico del cineasta danese.
Sul piano estetico, la serie è un tripudio di luci neon, atmosfere surreali, musica elettronica, colori sgargianti e densa oscurità, che alterna scene di brutale violenza a lunghi momenti di silenzio, quasi contemplativi.
Si tratta di un prodotto estremamente radicale, che per Refn segna un ritorno alle origini e alla trilogia di Pusher, anche dal punto di vista geografico: come ben si può intuire dal titolo, Copenhagen Cowboy è una serie orgogliosamente danese, che rinuncia ai volti noti di Hollywood per proporre un cast tutto europeo.
Dal punto di vista contenutistico, tuttavia, nei bassifondi criminali di Copenhagen – già teatro delle disavventure del Frank di Mads Mikkelsen – ora irrompe l’anima più magica, esoterica e metafisica del cinema di Refn, emersa con forza nella seconda fase della vita cinematografica dell’autore.
Nel corso della serie, il noir incontra il mistero e il genere crime si impregna di simbolismo, proponendoci una narrazione tanto dilatata e rarefatta quanto densa di significato.
Di per sé la trama è molto lineare, ma sono parecchi i misteri metafisici, gli archetipi e i temi esoterici che affollano il viaggio di Miu.
Senza alcuna pretesa di esaustività, iniziamo quindi a scalfire la superficie con questa spiegazione del significato Copenhagen Cowboy di Nicolas Winding Refn.
Miu e Rakel: i due volti della femminilità
In origine, Copenhagen Cowboy doveva raccontare le avventure di un giovane misterioso, intento a vagare nel mondo della malavita danese e a seminare morte e vendetta.
Tuttavia, durante il processo di scrittura, Refn ha scelto di cambiare rotta e mettere al centro del proprio racconto un personaggio femminile, declinando in un’ottica completamente nuova il tema mitico del viaggio dell’eroe.
Rispetto a Jesse – la giovane e immacolata protagonista-vittima di The Neon Demon, interpretata da Elle Fanning – la Miu di Angela Bundalovic è infatti una figura eroica a tutti gli effetti, che compie un lungo viaggio, affronta varie prove e combatte l’iniquità e le forze delle tenebre.
Come ogni eroe o eroina che si rispetti, anche Miu ha un’ombra, una gemella oscura: si tratta della sua nemesi, Rakel, con cui si scontra in una mistica battaglia finale.
A livello simbolico, Miu e Rakel incarnano i due volti della femminilità, riassunti dagli archetipi della vergine e della strega, e dai colori blu e rosso. Miu è minuta, dolce ed empatica, mentre Rakel è fiera, aggressiva e minacciosa.
L’antitesi ricorda quella che contrapponeva Diana e Yaritza in Too Old to Die Young, ma al tempo stesso riflette sfumature differenti.
Se la vergine-guerriera Miu ci ricorda la fiera Artemide del mondo greco, o una santa dell’immaginario cristiano, Rakel incarna invece la dea Ecate, signora della magia e della notte, nonché la Lilith giudaica, ribellatasi all’autorità del suo consorte e alla prima forma di patriarcato.
Le origini di entrambe le donne sono avvolte dal mistero: intuiamo che Rakel è stata uccisa dai suoi familiari, devoti al culto della mascolinità, e immobilizzata come un vampiro in una bara, che giace nella cantina del maniero; Miu invece non ha famiglia, e ignora completamente da dove provenga.
Il viaggio dell’eroe secondo Refn
Come dichiarato dallo stesso Refn in un’intervista, “il vero DNA della storia di Miu sono le fiabe e il viaggio dell’eroe”.
Per capire a fondo Copenhagen Cowboy, dobbiamo quindi fare i conti con l’antica mitologia, e con una struttura comune a molti racconti che lo studioso Joseph Campbell ha efficacemente ribattezzato “viaggio dell’eroe”.
Si tratta di una riduzione schematica che ha fatto scuola, e che ha ispirato, tra gli altri, George Lucas, Zack Snyder e le sorelle Wachowski.
Il percorso prevede una traumatica partenza da casa, il superamento di una soglia dell’avventura, l’imprigionamento in un reame oscuro (il “ventre della balena”), l’evasione, una serie di prove, l’incontro con una figura paterna, il duello finale contro l’Ombra e il ritorno a casa.
Anche Refn attinge a piene mani a questo schema, ma sceglie di lasciarne fuori gli estremi. Per il regista danese conta soltanto il viaggio, e non importa nulla della destinazione o del punto di partenza.
Certo, sappiamo che Miu è stata rapita di casa dagli alieni a sette anni, e ha superato la “soglia dell’avventura” quando è ritornata sulla terra con i suoi poteri miracolosi, ma tutto ciò rimane confinato nelle nebbie di un remoto passato.
Analogamente, non ci è dato sapere cosa avvenga dopo il suo duello finale contro Rakel, e neppure se ne sia uscita vincitrice o sconfitta.
Privo della testa e della coda, il viaggio di Miu segue però rigorosamente lo schema di Campbell: inizia con la prigionia nella casa di Rosella e nel bordello, prosegue con l’evasione e la distruzione col fuoco della sua carceriera, continua con le varie prove che le consentiranno di portare giustizia a Copenhagen, vendicando la morte di Cimona e liberando la piccola Ay dal signor Chiang, passando anche per l’incontro con Miroslav, la sua unica “figura paterna” di riferimento.
“Lei non è una. Lei è molte”
In qualche modo, però, prima di affrontare Rakel, Miu effettivamente porta a compimento il proprio viaggio dell’eroe con una sorta di “ritorno a casa”.
Nel sesto e ultimo episodio (“Il cielo cadrà”), dopo aver sconfitto il signor Chiang, la protagonista si ritrova improvvisamente a vagare per la prima volta fuori da Copenhagen, in mezzo alla brulla natura danese.
Qui incontra altre ragazze che indossano la stessa, iconica tuta blu che l’ha sempre univocamente identificata fino a questo momento.
Chi sono? Cosa sta succedendo? Come la conoscono? Perché una di loro le dice espressamente che “la stavano aspettando”?
Rakel ce lo aveva anticipato poco prima, nel suo dialogo con Nicklas: Miu “non è solo una, è molte”.
Si tratta di una delle sequenze più criptiche e misteriose della serie, che ci consente di muoverci soltanto nel terreno delle ipotesi e dell’interpretazione.
Forse si tratta di altre eroine che hanno compiuto il medesimo viaggio di Miu, sostenendo prove analoghe, e si ritrovano ora riunite al termine del loro cammino, dopo aver portato giustizia sulla terra.
Se vogliamo assecondare la bizzarra mitologia che collega la serie tv a Too Old to Die Young, è possibile che anche loro siano state inviate nel mondo dagli alieni, e che si conoscano perché hanno condiviso l’inizio del proprio percorso.
Sul piano psicanalitico, però, sono soltanto altri volti della stessa Miu, che ricompone finalmente il suo io frammentato (anche nei titoli di coda, le ragazze sono definite come alter ego della protagonista!).
La Divina Commedia sbarca a Copenhagen
Il suggestivo scenario che fa da sfondo al suo incontro con le altre eroine è completamente privo di elementi artificiali, e ci immerge nella natura selvaggia e incontaminata.
Sul piano simbolico, si tratta dell’ultima tappa di un viaggio iniziato nella casa di Rosetta, e successivamente proseguito nei meandri dell’oscura Copenhagen, fino alla visione della rosa bianca e allo scontro con Mr. Chiang.
La casa, la città, la natura: nel corso dei tre atti di Copenhagen Cowboy, i confini dello scenario si allargano progressivamente, in un percorso che dalla prigione iniziale conduce dapprima a un oscuro labirinto, e infine alla vera libertà.
Come si è visto in The Neon Demon, Refn non certo è nuovo alle allusioni dantesche, e nei primi due episodi di Copenhagen Cowboy viene ribadito in più occasioni come la casa di Rosetta e il bordello siano “l’inferno”.
E se non si trattasse soltanto di una figura retorica? Il primo atto, a ben vedere, ci fa scoprire un oscuro mondo-prigione, un regno infernale governato da tiranni ignoranti, corrotti e violenti.
Proseguendo con questa metafora, l’oscura e tortuosa Copenhagen, con le sue mille missioni da compiere, rappresenterebbe quindi una sorta di purgatorio, dove la protagonista vaga senza sosta per espiare le colpe di altri (Madre Hulda) e dove incontra le anime di quanti, come Cimona, sono morti prematuramente.
Se così fosse, potremmo affermare che Miu si trova ora in una sorta di Paradiso, insieme alle altre anime pure che, come lei, sono degne di trascendere oltre i confini del mondo terreno.
Dalle tenebre alla luce
Il viaggio di Miu, proprio come quello di Dante, è caratterizzato da una radicale trasformazione del linguaggio.
All’inizio di Copenhagen Cowboy, tutto è estremamente concreto, brutale e grottesco. C’è Sven, l’uomo-maiale che abusa delle prostitute, c’è il clan dei Balcani che sfrutta i sogni delle aspiranti modelle per ridurle in schiavitù, e c’è Rosetta con la sua assurda superstizione.
Poi, progressivamente, il tenore della storia diventa sempre più simbolico e meno letterale, e le atmosfere sempre più misteriose e rarefatte, per giungere infine all’enigmatico finale, con la sequenza nel bosco e il duello “al neon” tra Miu e Rachel.
Tra il percorso di Dante e quello di Copenhagen Cowboy esistono anche, però, alcune macroscopiche differenze.
Nel suo viaggio dall’inferno al paradiso, Miu non è una semplice visitatrice, accompagnata da una guida esperta.
Al contrario, la protagonista è completamente sola, e deve lottare in prima persona per evadere dalle trappole dei vari reami.
Il suo è un autentico viaggio iniziatico: come apprendiamo da Miroslav, Miu è una vera e propria creatura celeste, con poteri soprannaturali, che si ritrova imprigionata in un mondo oscuro.
Dallo gnosticismo (pensiero molto caro anche ad Alejandro Jodorowsky, amico e mentore di Refn) all’alchimia, passando ovviamente per il buddhismo, i temi mitologici e religiosi della serie sono molti, soprattutto se si tiene conto del fatto che, dopo essere tornata sulla terra, la protagonista ha pure perso la memoria, dimenticando completamente le proprie origini.
Miu è insomma un angelo caduto, una creatura di puro spirito – lo fa intendere Hideo Kojima nel suo cameo finale – che, dopo aver perso la memoria, si ritrova imprigionata in un inferno terrestre fatto di cruda materia, violenza, e brutalità.
Non a caso, sulla sua tuta spicca il simbolo della spada fiammeggiante, che rimanda esplicitamente alla mitologia biblica e all’Eden.
La stalla dei maiali
Proviamo quindi a ripercorrere alcuni tra i molti simboli che affollano Copenhagen Cowboy, così da capirne qualcosa in più.
Fin dalla scena iniziale della serie, possiamo notare come Refn metta al centro dell’attenzione i maiali.
Questi animali e la stalla che li circonda, fanno da filo conduttore ai primi due episodi: a emettere versi suini non è solo Sven, il perverso marito-fuco di Rosella, ma anche Nicklas, il serial killer di prostitute.
Il giovane è il “consumatore finale”, il punto di arrivo di un’intera industria criminale basata sul sesso, sulla violenza e sulla prevaricazione.
L’analogia è piuttosto chiara, e riprende la critica che Refn aveva mosso agli ambienti più beceri e degradati della polizia americana in Too Old to Die Young: cedendo ai suoi istinti più bassi, l’uomo può ridursi al rango di un mero animale.
L’ultima scena in cui incontriamo l’elemento suino è durante la resa dei conti tra Miu e Nicklas: il giovane danese ha la peggio, e sono i suoi stessi maiali ad avventarsi su di lui, divorando il suo corpo.
Ancora una volta, è difficile non cogliere l’eco della Divina Commedia e del contrappasso infernale: per mano della protagonista, Nicklas subisce una punizione che rispecchia la sua disgustosa condotta nel corso della vita.
Il culto del pene e la castrazione di Nicklas
Oltre a rimanere orrendamente sfigurato, Nicklas viene anche castrato dai suoi stessi maiali, ed è soprattutto questo a suscitare l’orrore dei suoi familiari.
Suo padre, Michael, ha un vero e proprio culto del pene: ne è autenticamente ossessionato e lo considera addirittura un “importante asset culturale”, “protagonista di molti progetti artistici”.
L’intera famiglia è una grottesca rappresentazione dalle dinamiche patriarcali: Michael ne è ovviamente il leader supremo e, proprio come l’archetipo dell’antico guerriero, divide il suo tempo tra il maniero domestico e le sue imprese marittime.
Sua moglie, Beate, è completamente sottomessa sia a lui che al figlio Nicklas, al punto da giungere a sacrificare la propria vita per lui, in una scena che presenta un’esplicita metafora sessuale ed edipica.
È felice di essere una mera serva domestica, sempre esclusa dalle conversazioni maschili, a cui Michael ha demandato il compito di sincerarsi che il seme di Nicklas venga conservato.
L’insistenza sul tema del pene e della castrazione, però, non si limita a rappresentare una critica dissacrante alla cultura patriarcale ma, sul piano spirituale, rappresenta anche una diretta prosecuzione del cinema esoterico di Alejandro Jodorowky.
Da El Topo a Santa Sangre, ritroviamo più volte nella filmografia del regista cileno amico di Refn il tema della castrazione (ripreso a sua volta dal mito greco di Urano), che segna sempre la fine della tirannia dei demoni sessuali sull’individuo, e l’avvento di una fase nuova, pienamente spirituale.
Analogamente, anche il grottesco culto del pene da parte degli antagonisti è presente ne La Montagna Sacra, e sarebbe dovuto comparire pure nel Dune mai realizzato da Jodorowsky, dove il simbolo fallico avrebbe dovuto campeggiare su tutte le armature della malefica famiglia Harkonnen.
Castrando Nicklas, insomma, Miu apre una nuova fase del suo viaggio iniziatico, e spezza i confini della sua prigionia nella “stalla dei maiali”.
Il drago
Dopo essersi liberata, Miu incontra Madre Hulda: nel locale, l’attenzione della telecamera indugia sull’effigie del drago, dipinto con evidenti tratti orientali.
Il simbolo è fondamentale nell’immaginario di Copenhagen Cowboy, e non a caso campeggia alle spalle di Miu anche in quella che fu la prima immagine promozionale della serie.
Diversamente da quanto accade in Occidente, dove il drago è un mostro oscuro e maligno, nella cultura orientale si tratta di un’entità celeste e spirituale, contrapposta alla tigre terrena.
Accompagnandola in varie tappe del suo viaggio, il drago rappresenta Miu stessa e la sua natura spirituale, che la condurrà a guardare al cielo, verso l’alto.
Al tempo stesso, però, Miu non è l’unica donna a celare in sé un potere ultraterreno e metafisico: il drago – che è pur sempre anche un simbolo di forza, di potenza e di aggressività – campeggia anche sulla tuta rossa di Rakel, al posto della spada fiammeggiante di Miu.
In questo caso, il ricorrere dello stesso simbolo ci testimonia come Miu e Rakel siano lo yin e lo yang, due volti della stessa energia e dello stesso principio.
Il potere del sangue
Malgrado la violenza la faccia da padrona, nelle sei puntate di Copenhagen Cowboy il sangue non sgorga quasi mai, e le scene di lotta finiscono così per risultare estremamente coreografiche.
A livello narrativo, tuttavia, il sangue gioca un ruolo fortemente simbolico sia nel cammino di Miu che in quello di Rakel.
Durante il suo sogno nella notte che trascorre nel covo di Mr. Chiang, Miu vede una rosa bianca, simbolo della propria purezza spirituale, e si punge con una spina.
Con una chiara metafora alchemica, il suo sangue, che ha evidenti poteri curativi, viene baciato e bevuto da Mr. Chiang, che si risveglia così curato una volta per tutta dai suoi mali (iniziati, del resto, proprio quando madre Hulda -a sua detta – gli ha rubato “prima il suo seme, e poi il suo sangue”).
Il sangue, insomma, è l’essenza stessa della protagonista, che si trasforma e si sublima nel corso del suo viaggio fino a divenire un dono magico, una sorta di elisir taumaturgico.
Un analogo elisir, ma dalle proprietà ben più oscure, è il sangue di Beate, la madre di Nicklas, che viene utilizzato per risvegliare Rakel dalla sua bara.
Versando il sangue materno, Nicklas annienta la donna sottomessa (Eva) e risveglia la donna ribelle (Lilith), che era stata sigillata nel sepolcro proprio dalla madre, per volere del padre.
Riprendendo ancora una volta la filmografia di Alejandro Jodorowsky (Santa Sangre), in Copenhagen Cowboy Refn fa del sangue un’autentica sostanza magica, che trasforma e rivoluziona la realtà e libera le forze ancestrali in essa contenute.