Nella nostra recensione di Avatar – La via dell’acqua si chiarisce il perché questo film è stato probabilmente l’evento cinematografico più atteso del 2022. Un anno che ha conosciuto una buona rivalorizzazione del cinema inteso come spazio fisico di condivisione e percezione, con l’arrivo di opere sorprendenti quali il dirompente Top Gun: Maverick e il peculiare terzo film di Jordan Peele, Nope. Sotto il cappello del blockbuster si sono rinfrancati insomma anche gli scettici e i delusi dal corso della Fase Quattro del Marvel Cinematic Universe, il flusso narrativo che fino a questo momento sembrava essere l’unico a regnare incontrastato.
Il nuovo film diretto da James Cameron ha appena iniziato la sua corsa ed è presto per trarre bilanci, nonostante fosse da tempo che non si avvertiva nell’aria una febbrile eccitazione collettiva all’idea di recarsi in sala. Questo a dispetto anche della durata monstre del film, oltre le tre ore (lo aveva già fatto Avengers: Endgame, ma lì c’è tutta un’altra componente di fidelizzazione alle spalle), e del possibile deterrente del 3D, tecnica senza la quale è impossibile concepire il lavoro concettuale dietro all’opera ma che allo stesso tempo non è semplice da addomesticare per l’occhio.
Un cinema per il popolo
Insomma, Avatar – La via dell’acqua è un film per le masse, James Cameron è un regista del popolo. Lo testimonia in prima istanza il percorso narrativo di questo sequel, che fa quasi copia carbone del pattern semplice ma non semplicistico del primo Avatar declinandone però all’interno alcune delle tematiche che interessano la contemporaneità. Famiglia come nucleo allargabile ed elastico, senso di appartenenza generazionale in un mondo vittima di grandi mutamenti, scoperta della propria identità.
Dopotutto è il compito a cui deve assolvere il cinema blockbuster. Da una parte la necessità di rispondere ad esigenze di carattere puramente commerciale: Avatar – La via dell’acqua pare aver richiesto investimenti di sola produzione superiori ai 350 milioni di dollari, e in qualche maniera deve andare a coprirli; dall’altra i meccanismi che mette in atto per far ciò: cercare di accogliere sotto le proprie ali il maggior numero possibile di spettatori adoperandosi ad intercettare le istanze del presente come quelle che abbiamo scritto sopra, allargando il raggio di discussione e magari anticipando le questioni del domani.
Per queste ragioni osservare i grandi agglomerati dell’intrattenimento cinematografico è un’operazione stimolante per comprendere le traiettorie dei percorsi sociali e culturali che ci attendono nel futuro. Avatar – La via dell’acqua non fa eccezione, e anzi molto più di altri mette in gioco questioni solo all’apparenza paradossali.
Il ruolo della performance capture
In queste pagine avevamo già affrontato la questione in parte. Si era discusso del ruolo della performance capture nel primo film di quella che a tutti gli effetti si avvia ad essere una saga. Se in superficie lo scambio di corpi tra umani e Na’vi è uno strumento narrativo utilizzato per dialogare sulla relatività dei concetti del giusto e dello sbagliato, per mettere sotto accusa il colonialismo e lo sfruttamento ecologico, a una lettura più profonda il primo Avatar attenzionava la posizione dell’uomo e del suo corpo nei confronti delle sfide che lo attendono dietro la collina.
Il nuovo capitolo ambientato su Pandora rincara la dose. L’utilizzo della perfomance capture resta fondamentale, e anzi ha chiamato al superamento di nuove barriere tecnologiche come quelle delle numerosissime e notoriamente complesse riprese subacquee, parte centrale dell’esperienza cinematografica di Avatar – La via dell’acqua. E la performance capture resta forse l’unico reale margine di prossimità a un’umanità celata, che per affrontare i nuovi standard richiesti dal cinema digitale di Cameron deve camuffarsi, ricoprirsi di protesi e integrare il corpo con congegni capaci poi di traslarne le movenze, le fattezze e le espressioni in software di elaborazione computerizzata.
Una nuova sintesi
Ecco, quello che ci dice ancora una volta Cameron è che l’essere umano, così come è adesso, fatica a stare al passo con i tempi. Pensiamo a quanto in questo sequel sia stato ancor più ridotto il tempo su schermo in cui appaiono donne e uomini, relegati ai margini dell’ennesima macchinazione belligerante e intenti a preparare il terreno per una colonizzazione coatta di Pandora, pianeta inospitale ma sempre meglio di quella che pare essere divenuta un’invivibile Terra.
Ma non basta lo sforzo tecnologico di per sé. Ragioniamo anche sui rapporti di scala, sui confronti tra questi pochi umani che sfruttano esoscheletri e i Na’vi stessi. Lo scontro in apparenza è impari, ferro contro carne, proiettili contro frecce. Il ferro però tradisce perché non è materia sensibile, non percepisce e non risponde ad altro che al calcolo, alla brutalità della devastazione che deve annientare a ogni costo. Preso per quello che è, il ferro è un oggetto, poco più di una clava agitata in aria senza coscienza e senza etica.
Manca un passaggio intermedio, un’alchimia chiamata al non mero sfruttamento della tecnologia come oggetto di controllo, ma all’integrazione della tecnologia sull’essenza stessa dell’essere umano. Ed è chiaro come questa sia l’operazione di elaborazione digitale sottintesa ad Avatar che ne qualifica il senso dell’operazione cinematografica stessa, che demarca la distanza da un cinema solo d’animazione, e che la produzione compie sui corpi degli attori, la cui risultante non è un corpo rivestito di una tuta e un caschetto integrato di fotocamera, ma un corpo nuovo, più alto, più agile, più forte, in grado di respirare l’aria di un nuovo pianeta e di una nuova realtà.
L’orizzonte sotto la luce del riflettore
Si vortica, insomma, attorno al concetto di postumanesimo, a quella prospettiva che guarda al futuro auspicandosi un ripensamento delle formule interpretative con cui si guarda all’umanità, sempre più intrecciata all’informatica, alla tecnologia e avviata a una sintesi definitiva che porterà alla luce di individui ibridi con differenti capacità fisiche, relazionali, cognitive. E il quasi paradosso è che Avatar – La via dell’acqua continui a veicolare questa visione del mondo futuro cantando il requiem dell’essere umano integralista proprio alle masse che accoglie a braccia aperte in sala.
A ben vedere, è proprio questa la colonna portante, la sagacia di una grande opera che interroga le grandi questioni inserendole in un racconto ad ampia portata. Perché quando il colonnello Quaritch nel suo nuovo e scattante corpo da Na’vi osserva la sua stessa morte nel luogo in cui è stato ucciso quando era ancora uomo, quando tiene in mano il suo stesso teschio e lo sgretola, sta decretando apertamente il passaggio definitivo della lotta in nuovo terreno, alla luce di un nuovo orizzonte dove tutto è differente da prima (e non è un caso che questa volta Quaritch sopravviva, venga salvato). E non lo fa rifugiandosi nell’interpretazione ermetista, ma sotto la luce del riflettore, che è democratica e accessibile.
E si badi a non scambiare la visione di James Cameron come uno sguardo apocalittico al genere umano, piuttosto lo si prenda come un appassionato aggiornamento del principio evolutivo darwinista, un accorato suggerimento al mutare e al percepire, a “vedere”, la realtà attorno a noi.