Si è tenuta dal 27 gennaio al 5 febbraio la quarantaseiesima edizione del Göteborg Film Festival, la più importante manifestazione cinematografica dei paesi nordici. Una kermesse che propone prestigiose anteprime di quei territori (Svezia, Norvegia, Danimarca, Islanda e Finlandia), insieme al meglio degli eventi dei dodici mesi precedenti (Berlino, Cannes, Locarno, Venezia, Toronto e compagnia bella). Il tutto per un pubblico cinefilo variegato, curioso ed esigente, talmente importante che uno dei premi principali, quello per il miglior film del concorso internazionale, lo decidono proprio gli spettatori. Ecco il nostro resoconto di un’edizione che ha celebrato il cinema, il pubblico e la stessa città in cui si svolge la manifestazione.
La città del cinema
Per festeggiare il suo ritorno alla normalità dopo due edizioni segnate dalla pandemia, il festival ha omaggiato la sua città tramite la retrospettiva, con vari film ambientati e girati a Göteborg. Tra questi anche l’esordio di un certo Ruben Östlund, acclamato enfant terrible del cinema svedese contemporaneo e, proprio per il suo legame con la città, ostracizzato in alcuni ambienti audiovisivi in patria: come lui stesso ha spiegato nel 2018, intervistato da Margarethe von Trotta per un documentario su Ingmar Bergman, era la prima volta che lo invitavano a partecipare a qualunque iniziativa sul grande regista perché se sei di Göteborg non sei considerato un bergmaniano, dato che tra gli insegnanti della scuola di cinema c’è il produttore di Bo Widerberg, storico rivale di Bergman (ironia della sorte, il concorso per opere prime del festival ha il nome del grande autore svedese, mentre quello per la migliore fotografia all’interno del concorso nordico è intitolato a Sven Nykvist, forse il più noto collaboratore di Bergman).
L’importanza del pubblico
Gli spettatori hanno un ruolo cruciale a Göteborg, con ben due premi che dipendono dal loro voto (quello del concorso internazionale, e uno apposito per il loro titolo preferito nel concorso nordico). Una cosa che Östlund, da qualche mese presidente onorario della kermesse, ha voluto mettere alla prova con un’iniziativa chiamata This Is Cinema!, nel contesto di una proiezione speciale del suo ultimo lungometraggio Triangle of Sadness. Proiezione extralarge, perché nel corso dello spettacolo il regista ha “diretto” il pubblico in sala, al fine di creare un’esperienza collettiva potente a base di reazioni attive di gruppo e combattere la passività che è diventata parte integrante della vita spettatoriale negli ultimi anni. Un esperimento affascinante e divertente, anche per la scelta del film che, già di suo, non è fatto per lasciare indifferenti.
Ospiti d’eccezione
Solitamente il festival assegna due premi alla carriera, uno a una personalità nordica e l’altro a una internazionale (nel 2022 la seconda categoria era rappresentata da Luca Guadagnino). Per la quarantaseiesima edizione è stato dato solo il primo dei due, al grande regista svedese Jan Troell, noto soprattutto per il suo dittico sugli emigranti basato sui romanzi di Vilhelm Moberg, con protagonista Max von Sydow (che proprio alla corte di Troell ha dato il meglio di sé in lingua svedese, al di fuori del fortunato sodalizio con Bergman).
Un omaggio dovuto a uno dei grandi delle cinematografie nordiche, anche se il momento più toccante dell’intera kermesse è arrivato durante la conversazione con la regista austriaca Marie Kreutzer, il cui nuovo lungometraggio Il corsetto dell’imperatrice è al centro di una bufera mediatica da qualche settimana poiché l’attore Florian Teichtmeister, interprete di Franz Joseph, è stato accusato di possesso di materiale pedopornografico (e lui si è dichiarato colpevole).
Le poche sale austriache che ancora proiettavano il film – uscito a luglio in patria – lo hanno rimosso dal cartellone, e anche alcune uscite internazionali sono state sospese o cancellate. Kreutzer, con le lacrime agli occhi perché era la prima volta che vedeva il film da quando è scoppiato lo scandalo, non si è tirata indietro, anzi: ha parlato dell’accaduto con onestà, contribuendo al fattore umano di quella che in altre circostanze rischiava di diventare una sterile conversazione che riciclava le solite frasi a effetto.
Il cinema nordico oggi
Al centro del festival, come sempre, ci sono le varie declinazioni del cinema nordico, articolate principalmente nel concorso che presenta otto lungometraggi di finzione provenienti da Svezia, Danimarca, Norvegia, Islanda e Finlandia.
Otto film tra esordi promettenti (come Dogborn di Isabella Carbonell, già visto alla Mostra di Venezia lo scorso settembre) e grandi conferme (come il bellissimo Godland, attualmente nelle sale italiane). Un concorso inaugurato da Exodus, anche film d’apertura dell’intera manifestazione, sul viaggio di una ragazzina costretta a fuggire dalla natia Siria per recarsi in Svezia (mentre la chiusura – fuori concorso e targata Viaplay, piattaforma streaming nordica – è stata Camino, su due danesi – padre e figlia – che invece lasciano la Scandinavia e si recano in pellegrinaggio in Spagna), e vinto da Unruly, sulla storia vera di giovani donne mandate su un’isola come punizione per i loro atteggiamenti sessualmente liberali (e in ottica femminile è stato anche il riconoscimento per la migliore interpretazione, andato alla finlandese Alma Pöysti per il suo ruolo molto forte in Four Little Adults, commedia drammatica sul tema del poliamore).
Tra le pellicole non competitive, di quelle che si faranno apprezzare dal grande pubblico anche fuori dal circuito festivaliero, c’era anche Second Act, su un attore attempato e arrogante che comincia a ricredersi sul proprio comportamento dopo un ictus. Un titolo che era anche una dichiarazione d’intenti, una rinascita per il festival dopo due anni complicati, all’insegna della qualità scandinava.