Cinquantanni fa i cinema di tutto il mondo proiettavano quello che a breve termine sarebbe diventato non solo uno dei casi cinematografici più eclatanti di tutti i tempi, ma anche l’horror più rivoluzionario e (forse) più terrificante di sempre. Stiamo ovviamente parlando de L’Esorcista, capolavoro diretto dal compianto William Friedkin ed uscito nei cinema internazionali a partire dal 1973, due anni dopo il successo che il regista americano ottenne agli Oscar con il neo-noir Il braccio violento della legge.
In occasione del suo 50° anniversario e in concomitanza con le celebrazioni dei 100 anni di Warner Bros. Pictures, L’esorcista torna nelle sale italiane esclusivamente nelle giornate del 25, 26 e 27 settembre, in una nuova versione di zecca restaurata dallo stesso Friedkin qualche anno fa e rimasterizzata in 4K. Una gioia per gli occhi e per le orecchie che riaccende ancora una volta l’annoso dibattito: è veramente ancora oggi l’horror più spaventoso di tutti i tempi?
Prima del film, un romanzo agghiacciante
Prima dell’uscita del film nel 1973, c’era il caso letterario pubblicato soli due anni prima da William Peter Blatty, dal titolo omonimo. Liberamente ispirato ad un articolo del Washington Post del 1947 che raccontava di un esorcismo cattolico praticato ad un ragazzo di Mount Rainier nel Maryland, il libro di Blatty non ci mise molto a fare rumore e diventare priorità assoluta di trasposizione per Warner Bros. Pictures, che se ne accaparrò immediatamente i diritti di sfruttamento. Alla fine, il regista che venne scelto sotto consiglio dello stesso scrittore (qui anche produttore e sceneggiatore de L’esorcista) fu il neo-premio Oscar William Friedkin.
La trama del celeberrimo film è praticamente ormai Storia: la dodicenne Regan MacNeil (Linda Blair), figlia della nota attrice Chris (Ellen Burstyn), comincia a dare insoliti segni di squilibrio: dalla sua camera provengono violenti rumori, diventa isterica ed è assillata da sogni terrificanti. Oltre a ciò, un regista amico di famiglia viene trovato morto dopo essere stato da solo con lei. I medici che l’hanno in cura si dichiarano impotenti di fronte alle stranissime manifestazioni di Regan, arrivando a ipotizzare che la ragazza sia “posseduta” da forze esterne. Di ciò si convince anche la madre, che chiama un sacerdote (Jason Miller) a visitarla: ma quando il religioso rimane vittima del Maligno che alberga nel corpo di Regan, si deve far ricorso a un vero esorcista (Max Von Sydow), che ingaggia un’epica notte di battaglia col demonio.
Un horror dissonante
L’esorcista è un film horror dissonante. Perché all’interno del suo tessuto narrativo (ma questa era già parzialmente farina nel sacco del romanzo seminale di William Peter Blatty) ha continuamente voglia ed ambizione di insinuarsi nei contenuti che ha racconta, cambiando pelle nei modi più imprevedibili. Pensiamo per un momento ai generi cinematografici che L’esorcista omaggia e al contempo affronta con spudorato slancio sin dalle prime scene: a partire ad esempio dall’esotico prologo ambientato in Iran, dove in un assolato scavo archeologico l’anziano sacerdote della Sacra Romana Chiesa Lankester Merrin (Max Von Sydow) riesuma dalle polveri di un passato ancestrale la statuina di un insidioso demone assiro di nome Pazuzu; un vecchio nemico venuto da molto lontano che brama sete di vendetta contro Merrin, in quello che sembra preannunciarsi come uno scontro epico tra romanzo d’avventura d’antan e gusto per il soprannaturale.
Ma poi, terminato l’ipnotico incipit, l’attenzione narrativa si sposta bruscamente ai giorni nostri, a Georgetown e all’interno di casa MacNeil; qui vivono Chris, attrice cinematografica di grande successo, e sua figlia dodicenne Regan, sballottata tra un genitore e l’altro dopo un matrimonio apparentemente finito in malo modo. Un quadretto famigliare ordinario che viene però immediatamente disturbato dalle dissonanze sonore del film di Friedkin: il sound mixing del lungometraggio del 1973 si fa carico di un’esperienza per l’udito dello spettatore rivoluzionaria ed immersiva, tra scricchiolii in soffitta, porte che sbattono improvvisamente, sbuffi di vento che perforano le finestre, letti che si muovono furiosamente. Casa MacNeil, in poco tempo, da apparente idillio famigliare si trasforma in dimora infestata da un Male invisibile e sotterraneo, che non si ferma di fronte a nulla pur di abitare il corpo e la mente sempre più fragile di Regan, fino a farla marcire all’Inferno. Letteralmente.
L’umanissima possibilità del Male
Una tragica sinfonia che segue le melodie cacofoniche di una colonna sonora che fa larghissimo uso di musica precedentemente registrata, tra pezzi classici e chamber music di inusitata potenza ed inquietudine. Una possessione demoniaca, quella di cui è vittima Regan MacNeil, che si muove di pari passo con la crisi spirituale del sacerdote della porta accanto, il fragile Padre Damien Karras (Jason Miller); che prima esprime la sua graduale lontananza da Dio, poi si trova costretto a rinchiudere l’anziana madre in un istituto psichiatrico, lasciandola morire da sola. Sarà proprio Karras ad essere avvicinato per primo da una disperata Chris, in cerca di un supporto religioso in extremis per la condizione di sua figlia. Il contatto ravvicinato con il potente demone assiro che depreda ed imputridisce il corpo e l’anima della povera dodicenne lo farà ricredere: se esiste il Male assoluto, allora ci deve essere anche un Dio, da qualche parte (di tutto questo vi abbiamo parlato anche nella nostra dettagliata spiegazione del finale de L’Esorcista).
Una crisi di fede che sembra omaggiare quella che il grande maestro del cinema svedese Ingmar Bergman affrontava nel capolavoro Luci d’inverno, e di cui Friedkin riprende spesso e volentieri (oltre al suo attore feticcio Max Von Sydow) il linguaggio registico, tra uso di luci espressionista e primi e primissimi piani che enfatizzano l’umanissima possibilità che il Maligno soggiaccia all’interno dei nostri impulsi e desideri più intimi. Una riflessione in filigrana non da poco quella che si può sottendere dai temi e dai contenuti affrontati ne L’esorcista, che nel tempo sono stati però anche comprensibilmente affogati dagli elementi più immediati e squisitamente orrorifici del cult: su tutti, ovviamente, l’impressionante ed esasperato lavoro di trucco ed effetti speciali utilizzati per trasformare l’innocente Regan in una nefasta e volgare dimora per il Principe delle Tenebre.
Perché L’Esorcista fa ancora così paura?
In questa iper-stratificazione di linguaggi, generi, ambizioni e contenuti, il capolavoro diretto da William Friedkin non affoga mai, attestandosi nel tempo come lungometraggio multi-tasking ed incline alle più svariate letture e fruizioni: dal suo debutto nelle sale ben cinquant’anni fa, L’esorcista è stato protagonista e palcoscenico delle più eccentriche opinioni, da quelle sull’accesa disputa teologica presente nel sistema dei personaggi, alla ragione scatologica sull’arte di generare talvolta tale orrore e ribrezzo negli spettatori attraverso le più recenti innovazioni nel campo degli effetti speciali. Sta di fatto che il film tratto dal romanzo di Blatty ha fatto scuola, ispirando quattro sequel diretti (l’ultimo, L’esorcista: Il credente di David Gordon Green, debutterà in Italia a partire dal 5 ottobre), due prequel/spinoff, ma nel contempo influenzando profondamente l’immaginario collettivo globale.
Se per certi versi, cinquant’anni dopo, il film diretto da Friedkin risulta “datato” e privo di brividi capaci di far saltare letteralmente lo spettatore dalla sedia, l’anestetizzazione tutta contemporanea per la quale è sempre più complesso al giorno d’oggi spaventare e fare horror di qualità, cozza con le ambizioni e i temi universali del film del 1973. Oggi, riguardandolo in celebrazione del suo 50° anniversario, spaventa genuinamente più per i dissidi religiosi che mette in campo, per i dubbi teologici che scatena e per le atmosfere di potente espressionismo visivo (un plauso al compianto direttore della fotografia Owen Roizman) che lo avvicinano più alle inquietudini agnostiche di Ingmar Bergman che al cinema d’orrore tout court. Che pure, agli inizi degli anni ’70, ha contribuito a cambiare per sempre.