Il film: Alien: Covenant, 2017. Regia: Ridley Scott. Cast: Michael Fassbender, Katherine Waterston, Billy Crudup, Danny McBride, Demián Bichir, Carmen Ejogo, Jussi Smollett, Callie Hernandez, Guy Pearce. Genere: Fantascienza, azione, horror. Durata: 122 minuti. Dove l’abbiamo visto: su Disney+, in lingua originale.
Trama: Una spedizione coloniale indaga su un segnale da un pianeta sconosciuto ed entra in contatto con una razza aliena molto brutale.
Era piuttosto elevato l’hype per Prometheus, uscito nell’estate del 2012 e dimostratosi un discreto successo di critica e pubblico nonostante le riserve dei fan duri e puri di Alien sull’eccessiva nebulosità del rapporto tra i due film (con gran parte dell’astio rivolto allo sceneggiatore Damon Lindelof, divenuto per alcuni anni il nemico pubblico no. 1 dei cinefili online). Una lamentela, quest’ultima, che è stata presa in considerazione durante la realizzazione del sequel, dotato di un titolo più esplicitamente legato alla saga storica e di un marketing che, salvo alcuni cortometraggi che fanno da ponte tra le due storie, per lo più taceva la parentela con la vicenda di Elizabeth Shaw e soci sul pianeta LV-233. Un sequel che a tutti gli effetti coniuga i due aspetti, come cercheremo di approfondire in questa recensione di Alien: Covenant.
La trama: mondo alieno in un battibaleno
Siamo nel 2104, undici anni dopo la scomparsa misteriosa della Prometheus. L’equipaggio dell’astronave Covenant, diretta verso un pianeta da colonizzare con 2000 persone in animazione sospesa e un migliaio di embrioni umani refrigerati, si sveglia con un po’ di anticipo in seguito a una tempesta di particelle che danneggia il velivolo e uccide il capitano. Il successore di quest’ultimo decide di partire in esplorazione dopo aver improvvisamente intercettato un segnale d’emergenza da un pianeta sconosciuto che, in base alle analisi, sarebbe ancora più abitabile di quello verso cui erano diretti.
Parte dell’equipaggio si reca sulla superficie, accompagnato dall’androide Walter (una versione più avanzata di David, visto nel film precedente), mentre altri rimangono a bordo, in orbita intorno al pianeta, per riparare i danni. Ben presto salta fuori che la zona sarà anche abitabile, ma l’unica forma di vita “umana” rimasta è proprio David, bloccato lì dopo essere fuggito ai tempi da LV-233 con Elizabeth Shaw. Oltre a lui, che ha ereditato dal creatore Peter Weyland una certa curiosità nei confronti del potenziale per creare vita nuova, ci sono solo degli esseri che sono delle forme preliminari degli xenomorfi che ben conosciamo.
Il cast: ma gli androidi sognano gemelli elettrici?
Congedata Noomi Rapace, che in questa sede appare solo come voce o immagine d’archivio (ma aveva un ruolo fisico in uno dei cortometraggi, disponibili online, che fanno da prologo), Ridley Scott ha affidato la parte principale a Katherine Waterston, altrettanto agguerrita e per certi versi più vicina alla grinta americana di Sigourney Weaver, laddove la collega svedese interpretava una scienziata britannica. Fotografica anche la presenza di James Franco, che appariva in un altro dei corti e qui muore male dopo mezzo minuto, lasciando il posto a Billy Crudup che è la figura autoritaria a bordo della Covenant, supportato da un insolitamente serio Danny McBride e dal granitico Demián Bichir. Guy Pearce, che nel film precedente prestava il corpo a un Peter Weyland decrepito, ritorna, non accreditato, nei panni della versione più giovane nella sequenza d’apertura, che spiega le origini di David e pone le basi per il percorso filosofico del lungometraggio.
E poi, ovviamente, c’è Michael Fassbender, l’impressionante anello di congiunzione tra i due tasselli di questo puzzle prequel con cui Scott ha voluto esplorare le origini della creatura che lo ha reso famoso nel 1979. Perfettamente glaciale nei panni di David, ancora più freddo rispetto alla sua prima apparizione e sempre più magnifica crasi della fisicità di David Bowie (una delle ispirazioni per il personaggio, anche se il nome, come spiegato nel prologo, deriva dalla statua di Michelangelo) e della voce di Peter O’Toole, e ora doppiamente inquietante con l’aggiunta di Walter, lui dotato di accento americano e paradossalmente più “umano” pur essendo stato costruito con delle salvaguardie che gli impediscono di avere comportamenti eccessivamente empatici. Un doppio tour de force che è la cosa più affascinante del recente corso del franchise, con i duetti tra le due versioni dell’androide che aggiungono nuovi strati perversi al discorso sessuale che è sempre stato parte integrante dell’iconografia e dell’horror tematico della saga.
Il pianeta dell’orrore primordiale
Con qualche eccezione (la spettacolare deriva action di Aliens – Scontro finale, il doppio, bolso crossover con Predator), il mondo ideato da Ronald Shussett e Dan O’Bannon è sempre stato terreno fertile per riflessioni filosofiche, una pratica che Scott, a detta di alcuni, aveva portato all’eccesso in Prometheus che non era sufficientemente “alieno” o spaventoso. Il regista risponde a tale obiezione con un seguito che è al contempo fedele e blasfemo, radicato nella tradizione del brivido senza tempo che accompagna la saga da decenni ma anche la prosecuzione logica del percorso metafisico e nichilista che attraversava con mortifera brutalità il capostipite di questo filone prequel. Un film che rivisita i capisaldi di due universi legati ma sconnessi e li rielabora in maniera ancora più radicale, rendendo molto più efficace un cliffhanger che, retroattivamente, è inquietantemente bello proprio perché forse non ne vedremo mai la risoluzione. Rimane solo la certezza, più solida che mai, che nello spazio nessuno può sentirci urlare. E quelle urla disperate danno alla saga una nuova ventata di sovversiva, conturbante energia.
La recensione in breve
Ridley Scott torna per la terza volta a occuparsi degli xenomorfi, e la saga delle fameliche creature aliene si tinge di ulteriore brutalità e intelligenza.
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Voto CinemaSerieTV