b>Il film: The Caine Mutiny Court-Martial, 2023. Regia: William Friedkin. Cast: Jason Clarke, Kiefer Sutherland, Jake Lacy, Monica Raymund, Lance Reddick, Lewis Pullman, Jay Duplass.
Genere: drammatico. Durata: 109 minuti. Dove l’abbiamo visto: alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, in lingua originale.
Trama: Il tenente Maryk viene sottoposto a corte marziale per aver tolto il comando al capitano Queeg sulla USS Caine.
“Nei miei film ho sempre esplorato il confine tra bene e male, anche nell’animo umano.” Con questa scritta, dedicata al regista, si apre quello che è diventato l’ultimo film di William Friedkin, un commiato postumo, dal momento che il cineasta si è spento poche settimane dopo l’annuncio della selezione, fuori concorso, alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (dove lui era spesso stato ospite, con tanto di Leone d’Oro alla carriera nel 2013). Un contesto, quello veneziano, che potrebbe essere l’unico – o comunque uno dei pochi – in cui vedere il film in sala, dato che la dicitura “Teleplay” nei titoli di coda lascia intendere che, sulla falsariga del remake de La parola ai giurati che il regista ha girato nel 1997, si tratti di un titolo realizzato per la fruizione su piccolo schermo. Di tutto questo parliamo nella nostra recensione di The Caine Mutiny Court-Martial.
La trama: ammutinamento sotto scrutinio
18 dicembre 2022: il tenente Maryk prende il controllo della USS Caine, una nave specializzata nel rilevamento di mine acquatiche, perché ritiene che il capitano Queeg non abbia le facoltà mentali per gestire la situazione in eventi di crisi. Due mesi dopo (più o meno il periodo in cui è stato girato il film stesso), Maryk è sotto processo, e come difensore gli viene assegnato Barney Greenwald, avvocato che non è stato in tribunale da un po’ di tempo, ma rapidamente emerge che lo stile poco ortodosso della difesa potrebbe essere lo strumento giusto per convincere tutti della necessità delle azioni di Maryk, spaventato dalla personalità paranoide di Queeg.
Il cast: Clarke vs. Sutherland
Il film ruota soprattutto attorno al duello recitativo fra Jason Clarke e Kiefer Sutherland, rispettivamente nei ruoli di Greenwald e Queeg. Particolarmente simbolico il ruolo di Sutherland, che nel 1992 in Codice d’onore era il braccio destro di Jack Nicholson e qui fa sostanzialmente il ruolo alla Nicholson, facendo dimenticare subito ogni paragone con Humphrey Bogart che invece fu un memorabile Queeg nell’adattamento cinematografico del 1954 del romanzo di Herman Wouk (la versione di Friedkin trae invece ispirazione dal testo teatrale che lo stesso Wouk scrisse a partire dal libro, dove si parla solo del processo e l’antefatto è evocato dai testimoni). Tra coloro chiamati a giudicare il caso c’è l’altro dedicatario del film, Lance Reddick, scomparso poco dopo la fine delle riprese, mentre Maryk ha il volto di Jake Lacy, conosciuto soprattutto per le sue interpretazioni televisive (The Office, Girls, The White Lotus). Lewis Pullman, figlio di Bill Pullman, appare nei panni del tenente Keefer, uno dei presunti istigatori dell’ammutinamento.
Fra quattro mura
Ambientato quasi interamente nell’aula di tribunale, il film è un tesissimo esercizio di claustrofobia che supera le sue evidenti origini teatrali – come già accaduto nel dittico di Bug e Killer Joe, dalle opere di Tracy Letts – con un sapiente gioco di campi lunghi, primi piani, movimenti di macchina e inquadrature fisse per creare una progressione drammatica sempre più incalzante e ricca di suspense (e stando a Guillermo del Toro, che era sul set ogni giorno per dare una mano a Friedkin, raramente erano necessari ciak multipli). Il caso vuole che la prima mondiale a Venezia sia stata nello stesso periodo della proiezione, sempre al Lido, de L’esorcista, forse l’esempio più lampante di ciò che il regista, al netto dell’ausilio di trucco ed effetti speciali in quel caso specifico, poteva ottenere mettendo dei grandi attori in una stanza.
La storia è stata aggiornata, dal secondo conflitto mondiale alle crisi odierne nel Golfo Persico, ma alla fine rimane, come suggerito da quel cartello iniziale, la sempiterna riflessione su ciò che separa il bene dal male. Una riflessione scolpita sui volti degli attori, in ogni scelta di angolazione e montaggio, in ogni minuto di questo testamento artistico che è l’ennesimo, limpido esempio di una poetica che, tra alti e occasionali bassi, è rimasta coerente fino alla fine. C’è anche un che di poetico nel fatto che la prima immagine ufficiale del progetto (vedi il paragrafo della trama), uscita prima della morte di Friedkin, sia quella perfetta per salutarlo. Alla tua, Billy!
La recensione in breve
William Friedkin si congeda, suo malgrado, dal pubblico con un dramma processuale teso e appassionante, formidabile nel suo minimalismo.
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Voto CinemaSerieTV