C’è stato un periodo di crisi per la Pixar, segnato in particolar modo dal triennio 2020-2022, quando su iniziativa dell’allora amministratore delegato della Disney, Bob Chapek, tre titoli consecutivi – Soul, Luca e Red – sono andati direttamente in streaming, senza l’opzione dell’uscita ibrida concessa invece agli altri reparti della major, e Lightyear, che doveva segnare il grande ritorno dello studio in sala, è stato un flop clamoroso. La ripresa parziale c’è stata nel 2023 con Elemental, partito in sordina ma poi rivelatosi un discreto successo commerciale grazie al passaparola, e ora con Inside Out 2 sembra di essere effettivamente tornati ai vecchi tempi. Ma qual è il futuro della Pixar, sulla base di questo fenomenale riscontro del pubblico (solo in Italia, dopo neanche una settimana di programmazione, è già quasi a 20 milioni di euro)?
Il post-Lasseter
Innanzitutto, è d’uopo chiarire un dettaglio: l’eventuale crisi creativa dello studio d’animazione, assolutamente opinabile, non è in ogni caso ascrivibile all’assenza di John Lasseter, co-fondatore della Pixar, allontanato nel 2018 in seguito ad accuse di comportamenti inappropriati sul posto di lavoro. Chi sostiene, infatti, che lui non avrebbe approvato i progetti usciti dopo la sua dipartita artistica, ignora che per completare un film d’animazione fatto come si deve ci vogliono almeno tre anni, in media cinque. Pertanto, sulla base del calendario di lavorazione dei vari film, fino a Elemental c’è stato il pollice su da parte di Lasseter, che dal 2006 al 2018 dettava legge sui contenuti Pixar e anche quelli della Walt Disney Animation. E attribuire a lui in toto i meriti o demeriti dei singoli titoli vuol dire non riconoscere il contributo dei registi che hanno sempre portato il loro vissuto sullo schermo tramite le diverse storie che dal 1995 hanno messo in mostra le potenzialità della computer grafica. E a tal proposito…
Meno elementi personali?
A destare preoccupazione, qualche settimana fa, è stato un articolo di Bloomberg dove si lasciava intendere che la strategia della Pixar, negli anni a venire, si baserebbe su concetti appetibili per il grande pubblico, facendo a meno di storie legate alle esperienze personali di sceneggiatori e registi. Un ragionamento che non sta né in cielo né in terra, anche sulla semplice base degli incassi: Lightyear, che era legato al franchise di punta dello studio, è stato un fiasco commerciale (anche per via di un marketing a dir poco confusionario che da un mese all’altro forniva una spiegazione diversa sulla premessa del film), mentre Elemental, allegoria dell’esperienza da immigrato del cineasta Peter Sohn, è andato bene (e a chi dice che la tematica sociale sarebbe stata respingente basterebbe ricordare che in casa Disney, nel 2016, Zootropolis – che affronta in maniera ancora più esplicita tematiche legate alla discriminazione – ha superato il miliardo di dollari al botteghino mondiale). E questo non solo per quanto riguarda le nuove generazioni: per esplicita ammissione dei diretti interessati, Marlin in Alla ricerca di Nemo e Bob Parr ne Gli Incredibili sono degli alter ego dei registi Andrew Stanton e Brad Bird, che si sono ispirati al proprio vissuto per la caratterizzazione dei personaggi.
Il potere delle emozioni
Anche Inside Out rientra in tale categoria, poiché l’idea per il primo film venne a Pete Docter – ora successore di Lasseter a capo della Pixar – mentre osservava dei cambiamenti umorali della figlia, ed è difficile pensare che il sequel sia nato per puro cinismo commerciale (anche perché in quel caso non sarebbero passati nove anni tra i due episodi). La componente personale, checché ne dicano i detrattori, è parte integrante del successo dello studio, che riesce a rendere universale il dettaglio specifico che è alla base del singolo progetto. Elemento di cui Docter sembra pienamente consapevole, poiché in una successiva intervista ha ribadito l’importanza di realizzare storie originali e non solo seguiti e spin-off (con l’intenzione di portare il tutto al cinema, lasciandosi alle spalle la parentesi Disney+). Il vero problema è un altro: chi comincia a urlare al declino – non solo della Pixar, questo vale in generale – al minimo risultato giudicato imperfetto, non all’altezza di una fantomatica infallibilità che è un peso insostenibile per chiunque cerchi di raccontare semplicemente una storia che vuole arrivare al pubblico. E il più delle volte, anche quando “minore”, ci arriva.