Ha già debuttato su Netflix La Regina Carlotta (qui la nostra recensione), la miniserie spinoff di Bridgerton dedicata alla giovinezza della carismatica sovrana inglese che, a cavallo tra fine Settecento e inizio Ottocento, si trovò a governare l’impero britannico e a fare i conti con la malattia del marito Giorgio III, affetto da una grave infermità mentale.
Nella serie principale a interpretarla è Golda Rosheuvel, mentre la sua controparte adolescente che nello spinoff avrà il ruolo di protagonista è India Ria Amarteifio.
Due attrici di colore che, del resto, appartengono a un universo narrativo che ha affollato la corte inglese di nobili, duchesse e marchesi dalla carnagione scura. A differenza degli altri personaggi di Bridgerton, tuttavia, la regina Carlotta è realmente esistita, e ha regnato per davvero dal 1761 al 1818. Siamo forse di fronte all’ennesimo caso di “blackwashing” in casa Netflix?
La controversia non fa che infiammare un dibattito già molto acceso, che di recente ha visto protagonista anche il documentario African Queens: Cleopatra, in cui l’ultima regina d’Egitto ha le sembianze dell’attrice di colore Adele James.
Occorre tuttavia fare molta attenzione al rischio di generalizzare: da Carlotta a Cleopatra, facciamo il punto su 6 controverse scelte di Netflix in bilico tra “blackwashing” e plausibilità storica.
1. Cleopatra
Dell’ormai famigerata docuserie su Cleopatra abbiamo già parlato nei giorni scorsi, ma nel frattempo è giunta la replica della regista Tina Gharavi, che ha difeso a spada tratta la propria decisione: “Perché Cleopatra non dovrebbe essere nera? Perché così tante persone vogliono che sia bianca a ogni costo? È molto più probabile che Cleopatra assomigliasse ad Adele che a Elizabeth Taylor“, ossia alla star angloamericana che ne ha vestito i panni nel 1963.
Il talento dell’attrice è fuori discussione, ma l’affermazione è del tutto falsa: francamente ci stupisce la scelta di adottare una scelta simile in un prodotto documentaristico, in cui la componente didattica dovrebbe avere il predominio su quella artistica.
È vero: per quasi un secolo sono stati sistematicamente scelti interpreti caucasici per portare sullo schermo i grandi personaggi mediorientali dell’antichità, con un analogo falso storico e culturale (ripetuto, peraltro, in tempi recenti anche da Ridley Scott con il suo pessimo Exodus!).
Tuttavia, la povera Cleopatra ha ben poco a che fare con tutto questo, dal momento che non era affatto di etnia egizia, bensì greco-macedone. Da tre secoli, fin dai tempi di Alessandro Magno, l’Egitto era governato dai discendenti del generale Tolomeo: al tempo, tutta la valle del Nilo parlava in greco, scriveva in greco e idealizzava la cultura greca, al punto da aver abbandonato quasi del tutto l’uso dell’antica lingua dei geroglifici, ridotta ormai a un mero dialetto popolare.
Certo, l’élite dominante si era mescolata con la popolazione locale, ma la dinastia regnante rimase sempre estranea a ogni “contaminazione”, arrivando a praticare anche vari matrimoni tra consanguinei: gli antichi greci, del resto, erano assai orgogliosi della propria identità (spesso ai limiti del razzismo!), e disprezzavano come “barbari” tutti gli altri popoli del mondo.
Per regnare sull’Egitto, quindi, Cleopatra doveva necessariamente avere i tratti di una donna greca.
2. Re Artù
Uscito su Netflix a luglio 2020, Cursed adatta l’omonima graphic novel di Frank Miller e racconta il ciclo dei cavalieri della tavola rotonda dal punto di vista di Nimue, la mitica Dama del Lago di Avalon (interpretata da Katherine Langford).
Nella prima e unica stagione del telefilm, re Artù ha però il volto di Devon Terrell, un attore di origini australiane che, in precedenza, aveva interpretato nientemeno che il giovane Barack Obama!
In questo caso, quantomeno, non si tratta di un documentario, e pertanto il margine di libertà artistica è assai maggiore. La scelta di quest’interprete per un personaggio così iconico, tuttavia, resta comunque assurda e assai fuori luogo. Vietato parlare di quanto circolassero i popoli nel Sacro Romano Impero, magari mettendo pure di mezzo la Spagna dei Mori: a livello culturale, la Gran Bretagna fece sempre storia a sé – come si vede nell’ottimo The Last Kingdom – ma, soprattutto, non è certo quella l’epoca a cui bisogna fare riferimento!
Tra mito e storia, la figura di re Artù si situa intorno al 490-500, a pochi decenni dalla definitiva caduta dell’impero romano d’Occidente: il mitico re di Avalon compare per la prima volta in alcune cronache che parlano della battaglia del monte Badon, in cui i britanni romanizzati affrontarono l’invasione delle tribù sassoni provenienti dalla Germania.
Anche al netto di qualche inevitabile concessione al medievalismo più convenzionale (si pensi a Il Primo Cavaliere, con Sean Connery e Richard Gere), ci troviamo quindi pur sempre in un’epoca molto arcaica, in cui la Britannia era del tutto isolata dal resto del mondo e gli scambi con l’Asia e l’Africa erano pressoché inesistenti.
In un simile contesto culturale, se Artù o Merlino avessero avuto la pelle nera sarebbero subito finiti al centro dell’attenzione, e il dettaglio non sarebbe certo sfuggito ai cronisti dell’epoca!
3. Achille
Un’altra produzione Netflix ad essere incorsa nelle ire degli amanti della storia è la miniserie Troy: Fall of a City del 2018, che non deve essere confusa con l’egualmente assurdo e inverosimile film Troy del 2004 (con Brad Pitt, Orlando Bloom e Sean Bean).
Nella versione per il piccolo schermo, Achille ha il volto dell’attore David Gyasi, visto di recente in Carnival Row nei panni del fauno Agreus Astrayon e nell’ottimo The Diplomat di Netflix nel ruolo del ministro inglese Austin Dennison.
Per coerenza narrativa, pure il suo amato compagno di imprese Patroclo è di colore, ed è interpretato dal sudafricano Lemogang Tsipa. Certo, anche questa volta siamo al cospetto di un’opera di fantasia, ma è comunque sconcertante constatare come, dai tempi del superlativo Bekim Fehmiu in avanti, i poemi omerici siano sempre stati radicalmente fraintesi e stravolti a ogni adattamento. Ci troviamo su un autentico “campo minato”, che meriterebbe ben più delicatezza e profondità da parte dei registi, i quali almeno in questo caso farebbero meglio a lasciare da parte il blackwashing e gli slogan contemporanei.
Inutile precisare che il casting è storicamente indifendibile: gli achei erano indoeuropei e, più nello specifico, il mitico popolo dei Mirmidoni è più volte descritto con lunghi capelli biondi e carnagione chiarissimi. Trattandosi di un antenato del giovane Pirro, re dell’Epiro e nemico giurato di Roma, è molto probabile che il formidabile guerriero acheo avesse le sembianze di un odierno adolescente albanese.
4. Enea
Nel 2018, al tempo dell’uscita su Netflix di Troy: Fall of a City, aveva fatto molto scalpore il casting di un attore di colore per il ruolo di Achille, mentre era passata quasi del tutto in sordina la scelta di Alfred Enoch, futura star di Le Regole del Delitto Perfetto, come interprete di Enea.
Tutto sommato, la scelta di un attore di colore per il principe di Troia non deve essere parsa così assurda alla stampa, dal momento che lo stesso Omero ci conferma che nei ranghi di re Priamo militavano anche molti mediorientali e nordafricani.
In effetti si potrebbe accettare la scelta di interpreti di colore per altri personaggi del mondo troiano (Cassandra, Briseide, Criseide, Crise) che, con un piccolo sforzo di fantasia, avrebbero potuto essere giunti in Asia Minore a partire dall’Africa. Del resto stiamo pur sempre parlando di un mito!
Si sarebbe potuto chiudere persino un occhio sull’identità ittita, e quindi indoeuropea, di Priamo e dei suoi figli, soprattutto nel caso di un interprete dalla carnagione non eccessivamente scura.
Nel caso di Enea, tuttavia, lo svarione risulta a dir poco incredibile, e involontariamente comico: il giovane principe di Troia, infatti, tramite il figlio Iulo diventerà il capostipite degli antichi romani attraverso la fondazione di Alba Longa nella valle del Tevere!
Inutile aggiungere altro: per fortuna Troy: Fall of a City non appartiene allo stesso universo narrativo del Romulus di Matteo Rovere, che ci restituisce un’immagine assai più verosimile dei discendenti di Enea!
5. Jarl Haakon
Un discorso completamente diverso riguarda la prima stagione della serie tv Vikings: Valhalla, nella quale incontriamo sul trono di Kattegat la carismatica jarl Haakon, interpretata dall’attrice di colore Caroline Henderson. In questo caso, diversamente dagli altri telefilm citati in precedenza, il telefilm approfondisce le origini del personaggio e ci rivela che la donna è giunta in Scandinavia a partire dal Nord Africa, terra natale di sua madre: è bene ricordare che, in effetti, nei secoli precedenti i vichinghi erano sbarcati a più occasioni sulle coste meridionali del Mediterraneo, dove avevano compiuto numerose razzie e stabilito insediamenti.
A dire il vero, ormai la presenza di guerrieri di etnia africana tra le schiere dei vichinghi di seconda generazione non è più soltanto una ragionevole ipotesi: dalle analisi del DNA è stato confermato come una minoranza di “vichinghi neri” sia esistita per davvero.
Neppure elevarsi al rango di jarl sembra un’impresa impossibile: a conti fatti, l’arcaica società guerriera dei vichinghi era profondamente meritocratica, e non avrebbe avuto problemi a riconoscere l’ascesa di un leader straniero.
A crearci qualche grattacapo in più è, semmai, il fatto che sia una donna a rivestire il titolo di jarl, carica che, nelle fonti norrene, risulta essere esclusivamente maschile.
Nella società vichinga le donne si affermarono come guerriere soprattutto nel caso delle leggendarie shield maiden, le “vergini dello scudo” di cui fece parte anche la mitica Lagertha, ma non ci risultano mai esistiti jarl di sesso femminile.
Tuttavia, soprattutto in circostanze transitorie, non ci sentiamo di escludere categoricamente quest’ipotesi.
Tocca, però, sfatare il mito specifico di jarl Haakon: il personaggio della serie è ispirato alla figura storica di Haakon Sigurdson, che fu però bianco e di sesso maschile. A Vikings: Valhalla va comunque un plauso per aver costruito un background solido e plausibile!
6. La regina Carlotta
A differenza di tutti gli altri telefilm citati finora, Bridgerton non vanta nei proprio ranghi quasi nessun personaggio storicamente esistito, ed è una storia frutto di pura fantasia.
Certo, la presenza di numerosi nobili di colore alla corte inglese di fine Settecento è un concetto già di per sé decisamente inverosimile, ma in questo caso crediamo sia opportuno derogare al discorso fatto nei paragrafi precedenti. Quello proposto da Bridgerton è pur sempre di uno scanzonato racconto di finzione in stile harmony, che non ambisce certo ad adattare fedelmente sullo schermo una pagina della “Grande Storia”, né uno dei miti fondativi dell’immaginario occidentale.
A conti fatti, non c’è alcun rischio di stravolgere la percezione globale della storia: il quadro fiction d’insieme è molto chiaro, e l’implicita dichiarazione d’intenti di Shonda Rhimes e del resto della produzione risulta assai evidente.
Facciamo un passo indietro, così da chiarire ancora meglio la differenza. “Vedere Cleopatra interpretata da un’attrice nera – ha dichiarato qualche giorno fa la regista Tina Gharavi – è un atto politico“. A nostro avviso, trattandosi in quel caso di un documentario che ambisce a fare divulgazione e, al contempo, dar voce alle grandi regine africane dimenticate dalla storia, si tratta semmai di un clamoroso falso storico, nonché di un furbo escamotage per catturare più spettatori al posto di provare a esplorare per davvero le biografie di questi personaggi.
Un vero atto politico è invece, a nostro avviso, quello di scegliere Golda Rosheuvel e India Ria Amarteifio per interpretare la regina Carlotta nel vivace universo cosmopolita di Bridgerton: il messaggio centra in pieno il suo obiettivo, ma lo fa dopo aver ben messo in chiaro come quel che vediamo sullo schermo non sia affatto una fotografia, bensì un dipinto espressionista che non ha alcuna intenzione di attenersi alla nuda realtà.
Facciamo il punto: tra regine nere, miti universali e cripto-razzismo
Concludiamo con una piccola nota a margine: negli scorsi anni lo storico Mario de Valdes y Comom ha sostenuto che la regina Carlotta, originaria del casato tedesco dei Mecklenburg-Strelitz, discendesse in realtà dalla nobildonna portoghese Margarita de Castro y Souza, che aveva la carnagione scura in quanto discendente da una relazione tra re Alfonso III e la sua amante moresca Madragana. Secondo lo storico, peraltro, i ritratti reali che ritraggono la regina Carlotta evidenzierebbero in maniera inconfutabile come anche a livello somatico la donna avesse una chiara ascendenza africana.
L’ipotesi è ancora controversa, ma sono già in molti a definire Carlotta, con un’iperbole, “la prima regina nera d’Inghilterra”. La sua carnagione – come vediamo dal quadro – non era certo scura, ma a questo punto è senz’altro plausibile che la versione interpretata senza troppe pretese storiografiche da Golda Rosheuvel non si discosti neppure così tanto dalla realtà!
Quantomeno, si tratta di un intelligente omaggio a una teoria storica, che propone al contempo anche un chiaro e univoco “atto politico“.
Rendere Achille nero, invece, significa insinuare che non esistano eroi africani degni di rivaleggiare con il protagonista dell’Iliade. Se fosse ancora vivo, lo studioso Joseph Campbell – che per definire l’archetipo dell’eroe ha esplorato a fondo un gran numero di affascinanti miti e leggende di tutti e sei i continenti – avrebbe senz’altro qualche protesta da avanzare.
E se, alla fin fine, la pratica perbenista del cosiddetto “blackwashing” non fosse altro che un’autentica forma di “cripto-razzismo”?