Si parlava di un possibile ritorno alle modalità di selezione del 2020, per la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia: quell’anno, in piena pandemia, la più longeva kermesse cinematografica del mondo dovette rinunciare alla sua solita formula con predilezione per il cinema americano, italiano e francese e presentarsi con un programma più variegato, soprattutto a causa delle uscite rimandate negli Stati Uniti (anche se alla fine il Leone d’Oro andò comunque a un titolo targato Searchlight e quindi Disney, ossia Nomadland). Tre anni dopo, complice lo sciopero tuttora in corso del sindacato attori (con annesso divieto di promuovere progetti realizzati da studios e piattaforme membri dell’Alliance of Motion Picture and Television Producers, vale a dire tutte le major e servizi come Netflix, Prime Video e Apple TV+), girava voce di una possibile alternativa “paneuropea” qualora i titoli statunitensi già selezionati dovessero rinunciare alla proiezione al Lido. Alla fine, l’unica vittima di questa mentalità è stato Challengers di Luca Guadagnino, rimandato ad aprile 2024 e sostituito da Comandante come pellicola d’apertura. Tutto come prima, insomma. Nel bene e nel male.
Dieci anni “da Oscar”
Dopo un’edizione un po’ sottotono nel 2012, a causa della concorrenza agguerrita di Toronto che quell’anno insisteva sulle prime mondiali e quindi si accaparrava gran parte dei titoli americani di maggiore richiamo (anche perché per le major costa di meno la trasferta canadese rispetto a quella europea), Alberto Barbera si è impegnato per convincere le grandi produzioni statunitensi a tornare al Lido, e nel 2013 c’è stato il primo colpaccio con l’apertura affidata a Gravity, successivamente uno dei grandi trionfatori agli Oscar. Da allora Venezia, a pari merito con il concomitante evento canadese, è considerato un luogo ideale per dare inizio alla stagione dei premi, nonché luogo privilegiato per le anteprime in sala dei film di Netflix, che tendono a disertare Cannes e Berlino i cui regolamenti impongono l’uscita tradizionale al cinema per l’ammissione nelle sezioni competitive.
Questo ha portato a una certa preponderanza del cinema americano, insieme a quello italiano e francese, nella corsa al Leone d’Oro: quest’anno, su 23 film in concorso, sei provenivano dall’Italia, sette dagli Stati Uniti, e tre dalla Francia (escludendo le co-produzioni con altri paesi), e dei sette film rimanenti solo due – El Conde di Pablo Larraín, di matrice cilena, e Evil Does Not Exist di Ryusuke Hamaguchi, dal Giappone – non erano europei. Una visione un po’ ristretta del cinema mondiale, nel contesto di quella che all’interno della Mostra è la sua vetrina più prestigiosa e mediatizzata. Una vetrina che sempre più spesso, al netto della qualità dei singoli titoli (nessuno ha avuto da ridere sul Leone d’Oro al magnifico Poor Things di Yorgos Lanthimos), si ritrova a sacrificare pellicole che beneficerebbero di quel tipo di esposizione, relegandole a sezioni mediaticamente più deboli (facendo il paragone con Cannes, quest’anno tra i papabili per la Palma d’Oro c’erano due film, di cui uno di una regista esordiente, provenienti dall’Africa, continente che nel concorso veneziano manca all’appello dal 2015).
Sei italiani in cerca di selezione
A questa riflessione generale si aggiunge il problema, nel 2023, di ben sei film italiani in lizza per il Leone d’Oro, una bulimia autarchica resa ancora più evidente dalle reazioni generali nei confronti dei lungometraggi in questione, con pochi entusiasmi anche per i titoli più apprezzati, nonché dubbi legittimi su quanto senso avesse metterli tutti in concorso, laddove dirottarne uno o due fuori gara non avrebbe comunque influito sul red carpet intriso di star nostrane fuori dal Palazzo del Cinema (con tanto di duplice presenza di Pierfrancesco Favino, per Comandante e Adagio). O sarà che forse, in un contesto sempre delicato come quello della selezione italiana, non c’è il medesimo coraggio applicato con altri titoli, come ad esempio The Palace che Barbera ha candidamente ammesso di aver selezionato – fuori concorso – pur ritenendolo “debole” (aggettivo che avrebbe usato anche nelle sue comunicazioni con Roman Polanski, stando a un’intervista concessa a Deadline)? Un vistoso passo indietro dopo che il direttore della Mostra, negli anni scorsi, si era apertamente espresso sulla sovrabbondanza di produzioni italiane che non trova un riscontro qualitativo nell’eccesso di quantità.
Un Lido invivibile
Al netto della questione puramente artistica, l’altro problema che attanaglia la Mostra, al di là delle problematiche organizzative legate alla biglietteria online (di cui abbiamo parlato approfonditamente in separata sede), è la situazione sempre più insostenibile dello stesso Lido, divenuto talmente costoso negli ultimi anni che anche chi viene al festival per lavoro e non per semplice passione cinefila si ritrova talvolta a dover optare per alloggi sulla terraferma, rischiando poi di non arrivare in tempo per le proiezioni mattutine qualora i vaporetti facessero cilecca per un motivo o l’altro (questo è accaduto, ad esempio, il giorno della proiezione stampa di The Killer di David Fincher). Si fa più elitario un mondo che tale non dovrebbe essere (la Mostra ha appositamente esteso il bacino d’utenza degli accrediti culturali per avere una più ampia gamma di spettatori), con il rischio che, salvo interventi tempestivi, la kermesse veneta diventi a breve più inaccessibile di Cannes, un festival che notoriamente non ha un pubblico pagante. E allora forse anche i film dovranno valutare se guardare in direzione di altri lidi…